C. G. JungTipi psicologiciNewton Compton 1993 |
Introduzione alla letturaIl testo originario del saggio sull'introversione prevedeva un quarto capitolo dedicato all'analisi del saggio junghiano sui tipi psicologici. Su richiesta dell'editore, ho accettato di spostare tale capitolo alla fine del libro come appendice e di sintetizzarlo. Ritengo opportuno pubblicarlo ora integralmente come introduzione alla lettura di alcuni brani tratti dal saggio junghiano. Introversione è un neologismo coniato da Jung, in opposizione ad estroversione. L'analisi di questi due orientamenti è esposta nel saggio Tipi psicologici (trad. it. Newton Compton, Roma 1973), pubblicato nel 1920 e annoverato tra i capolavori junghiani. Il saggio trae spunto da circostanze cui il testo non fa riferimento, ma che sono importanti. All'epoca, la separazione di Jung da Freud si è consumata già da sette anni. Essa è intervenuta per motivi teorici. Diversamente però da quanto accade in altri ambiti scientifici, laddove (spesso, se non sempre) i punti di vista divergenti non alterano il rapporto interpersonale tra gli studiosi, il conflitto tra Freud e Jung ha assunto rapidamente un carattere aspro, polemico, astioso. Fermo al suo diritto di primogenitura sulla psicoanalisi, Freud interpreta, un po' banalmente, il deterioramento del rapporto con colui che aveva designato suo erede com'espressione di un'invidia inconscia di questi nei suoi confronti. Come prova insomma dell’esistenza del conflitto edipico con il padre, che quegli negava. Jung, invece, che, pure non si è astenuto dal definire più volte Freud un "nevrotico", ricerca una spiegazione più sottile, anche se analitica, del conflitto con l'antico maestro, l'incontro con il quale ha cambiato la sua vita. Poco alla volta, giunge alla conclusione che "è il tipo psicologico che determina e limita il giudizio dell'uomo", tal che "ogni modo di considerare le cose è necessariamente relativo", vale dire influenzato "dal modo con cui l'individuo si rivolge al mondo, il suo rapporto con gli uomini e le cose". Al di là delle vicende personali, esisterebbe dunque un orientamento psicologico di base, di ordine costituzionale, che orienterebbe gli uomini a significare e a vivere il mondo in termini talora radicalmente diversi. In riferimento al conflitto con Freud, la conclusione cui perviene Jung sembra poco pertinente. Entrambi sono introversi, e in grado piuttosto elevato, anche se quest'aspetto si stempererà nel corso degli anni. Entrambi, affetti da disturbi nevrotici, sono stati costretti, ciascuno per proprio conto, a percorrere la via di una dolorosa autoanalisi. Entrambi, infine, hanno l’incoercibile tendenza a trasformare la psicoanalisi in un sistema ideologico totalizzante, capace d’interpretare gran parte dei fatti umani. L'unica differenza assolutamente reale è di ordine ideologico: Freud è un materialista il quale abbraccia il metodo positivista e enfatizza gli aspetti pulsionali della natura umana, mentre Jung uno spiritualista convinto che l'inconscio sia depositario anche di un orientamento trascendente. E' difficile attribuire tale differenza ad un orientamento psicologico di base. E' quell’intuizione, comunque, a promuovere in Jung l'idea di costruire una tipologia universale della personalità. Preceduto da un'introduzione, il saggio consta di undici capitoli e di una conclusione. I primi nove capitoli, espressivi di un'erudizione fuori del comune, sono dedicati ad un'accuratissima rassegna della letteratura precedente, che occupa ben due terzi del libro; il decimo illustra i tipi psicologici identificati da Jung; l'undicesimo è un ampio e utilissimo glossario nel quale vengono definiti e illustrati i termini e i concetti fondamentali della psicologia analitica. La conclusione ha un particolare interesse perché in essa c'è un'eco delle circostanze cui si è fatto cenno. In opposizione al "dogmatismo" freudiano, Jung sostiene che i fenomeni psicologici possono essere affrontati da due diversi punti di vista. Il primo è rivolto a scoprire ciò che vi è di uguale o di analogo nelle diverse esperienze soggettive: "Per scoprire l'uniformità della psiche umana bisogna discendere fino alle fondamenta della coscienza, poiché è lì che si trova tutto ciò che è uguale. Se fondo una teoria su ciò che ci rende uguali, spiego la psiche partendo da ciò che vi è in essa di fondamentale e di originale. Facendo ciò, però, non ho ancora spiegato ciò che in essa è differenziazione storica e universale, poiché con tale teoria io prescindo dalla psicologia della vita cosciente." (p. 447). Il secondo deve rivolgersi allo studio delle differenze tra gli individui. Ciò comporta che "le mie conclusioni saranno diametralmente opposte a quelle precedenti, giacché tutto ciò che prima era stato scartato come variante individuale assume, in questo caso, un'importanza notevole… In questo secondo atteggiamento bisogna tener conto dello scopo finale e non del punto di partenza." (pp. 447-448). In breve, "chiunque creda che per ogni processo psichico debba esserci una sola spiegazione resterà stupito della vitalità del contenuto psichico, che costringe ad enunciare due teorie opposte, specialmente se egli ama le verità semplici e chiare e se è incapace di pensarle contemporaneamente." (p. 448). La diversa metodologia nello studio dei fenomeni psichici riflette, secondo Jung, il tipo psicologico dello studioso. In conseguenza di questo, "si potrà giungere ad una vera comprensione solo se si accetta la diversità delle premesse psicologiche." (p. 444). Più precisamente: "Per comporre il conflitto tra le diverse concezioni, mi sembra che si potrebbe prendere come base il riconoscimento dei tipi di atteggiamento e, particolarmente, il fatto che ogni uomo è prigioniero del proprio tipo a tal punto da essere incapace di comprendere perfettamente un punto di vista diverso. Senza il riconoscimento di quest'importante esigenza, è quasi inevitabile che si faccia violenza all'altro punto di vista. Allo stesso modo in cui due avversari s'incontrano in tribunale e, rinunciando reciprocamente a farsi giustizia da soli, si rimettono all'equità della legge e del magistrato, così il tipo deve astenersi dalle ingiurie, dalle calunnie e dalle denigrazioni contro il suo avversario e prendere coscienza del fatto che anche l'altro è una parte dell'umanità." (pp. 344 - 345). L'equilibrio e la pacatezza di queste affermazioni sono, almeno in parte, smentiti da un particolare non insignificante, che finora penso sia stato equivocato. Nella descrizione di un tipo - quello logico introverso - si è voluto leggere un riferimento a Nietzsche, peraltro esplicitato. A me sembra evidente che essa si attaglia forse ancora meglio a Freud, almeno così com’era vissuto da jung. La descrizione è la seguente: "Nella costruzione del mondo delle sue idee, mentre egli non si tira dietro davanti a nessuna azione audace, né dinanzi ad alcuna idea sotto il pretesto che potrebbe essere pericolosa, sovversiva, eretica e pungente, egli si vede in preda ad una grande ansietà giacché la sua audacia sembra dover divenire realtà. Ciò è per lui molto sgradevole. Anche quando egli lancia le sue idee nel mondo, non lo fa affatto alla maniera di una madre preoccupata per i propri figlioli: egli le espone e tutt'al più si stizzisce quando esse non progrediscono da sole. La sua mancanza spesso totale di senso pratico, la sua ripugnanza per ogni forma di pubblicità, vengono in suo aiuto. Se ciò ch'egli ha prodotto gli sembra soggettivamente vero e giusto, è perché esso le è realmente e gli altri non debbono fare altro che piegarsi a questa verità. A mala pena egli consentirà di guadagnarsi le simpatie di qualcuno, soprattutto di una persona influente. E se egli lo fa, dimostra molto spesso una tale mancanza di destrezza che raggiunge lo scopo opposto a quello desiderato. Con i suoi colleghi in genere fa delle esperienze spiacevoli; non sa mai accattivarsi il loro favore; dà anche ad intendere che essi non hanno di fronte ai suoi occhi alcuna importanza. Nel perseguimento delle proprie idee, egli è particolarmente ostinato e non si lascia influenzare da nessuno… Siccome egli pensa ai suoi problemi fino alla fine, nella misura del possibile, egli li complica e s'impelaga senza tregua in ogni sorta di scrupoli. Egli vede chiaramente l'intima struttura delle proprie idee, ma non sa mai molto bene dove collocarle, né come introdurle nel mondo reale. Con molta sofferenza, con preoccupazione, ammette che ciò che è chiaro per lui non lo è per tutto il resto del mondo. Il suo stile si appesantisce, generalmente, di aggiunte, di restrizioni, di precauzioni, di dubbi sollevati dai suoi scrupoli… Il suo lavoro avanza faticosamente. Egli è taciturno, o capita in mezzo a persone che non lo comprendono: colleziona, così, delle prove della incommensurabile bestialità umana… Agli estranei egli appare inavvicinabile, arcigno e orgoglioso, spesso anche inasprito dai suoi pregiudizi poco favorevoli alla società. Come professore, egli ha scarsa influenza personale sui suoi alunni dato che ignora la loro mentalità. D'altronde, in fondo, l'insegnamento non lo interessa del tutto, salvo che ci veda un problema teorico. Egli è un cattivo insegnante perché, insegnando, pensa alla materia insegnata anziché limitarsi ad esporla… Nella misura in cui il suo tipo si rinforza, le sue convinzioni si fanno più rigide e inflessibili… Egli non farà alcuno sforzo per costringere qualcuno ad aderire alle sue convinzioni, ma pieno di rabbia si volgerà contro ogni critica, anche giusta. Egli si isola così, poco alla volta, da tutti i punti di vista. Le sue idee, un tempo feconde, diventano distruttrici, perché imprigionate da un'amarezza interiore. Con l'isolamento verso l'esterno, cresce anche la lotta contro l'influenza inconscia che lo paralizza a poco a poco. Un'accentuata tendenza alla solitudine deve proteggerlo dalle influenze dell'inconscio; ma questo in genere lo sprofonda di più nel conflitto che lo corrode interiormente. Il pensiero del tipo introverso è positivo e sintetico per quanto riguarda lo sviluppo delle idee che sempre più si avvicinano alle immagini primordiali valide in eterno. Ma, appena i legami con l'esperienza oggettiva si allentano, queste idee prendono la forma mitologica, sono dunque false per la situazione del momento. Perciò questo pensiero ha valore nella misura in cui esso può mantenere con i fatti conosciuti relazioni evidenti e comprensibili. Divenuto mitologico, la sua importanza svanisce ed esso si perde in se stesso." (pp. 355 - 358) Che schizzando questo ritratto psicologico, Jung avesse di mira Freud piuttosto che Nietzsche mi sembra poco dubitabile. E' evidente, infatti, che egli parla del fondatore di una scuola, di un professore impegnato a costruire un sistema, che ha un pessimo rapporto con i colleghi e con gli alunni, di un teorico le cui idee s'irrigidiscono progressivamente, diventando dogmatiche. Il riferimento al pensiero mitologico sembra far capo immediatamente alla teoria delle pulsioni, che, definita da Freud stesso come una "mitologia", ha rappresentato il nodo su cui si è consumata la rottura tra il maestro e l'allievo. Il ritratto, tra l'altro, è astioso, ma non del tutto infondato. Nonostante in Vita e Opere di Freud (Il Saggiatore, Milano 1966), E. Jones, abbia fatto di tutto, con un intento agiografico che in alcuni momenti diventa stucchevole, per porre in buona luce il padre della psicoanalisi, è fuor di dubbio che la personalità di Freud, soprattutto se si tiene conto della sua intolleranza alle critiche, dell'implacabile ostilità nutrita nei confronti degli allievi dissidenti, del continuo ruminare sulle sue idee che lo ha condotto ad esiti teorici (come l'istinto di morte) poco o punto condivisibili, ecc, presenta inconfutabilmente alcuni dei tratti descritti da Jung. Ho riportato la lunga citazione non solo per sottolineare l'evidente contraddizione tra l'apparente neutralità scientifica di Jung e la sua ostilità (peraltro contraccambiata) nei confronti di Freud. In realtà, essa rivela i limiti dell'impostazione teorica junghiana sui tipi psicologici. Al di là della distinzione dei due orientamenti - introverso e estroverso -, la teoria junghiana, infatti, per un verso è troppo fenotipica per avere un valore universale, e, per un altro, pur implicandoli, trascura il ruolo dei fattori ambientali. Questi limiti risulteranno più chiari dopo aver analizzato l'articolazione concettuale del saggio. Nell'appendice, i tipi psicologi sono definiti nel modo seguente: "Il tipo è un esempio od un modello del carattere peculiare di una specie o di una collettività. Nel senso più ristretto di questo lavoro, il tipo è un modello caratteristico di un atteggiamento generale, che si manifesta sotto diverse forme individuali. Dei numerosi tipi possibili in questa sede ne ho definiti quattro; essi sono quelli che seguono le quattro funzioni tipiche fondamentali: il pensiero, il sentimento, l'intuizione, la sensazione. Quando un tale atteggiamento è abituale e caratterizza l'individuo, io parlo di tipo psicologico. I tipi basati sulle funzioni fondamentali si possono chiamare: tipo logico, tipo sentimentale, tipo intuitivo, tipo sensoriale; tutti questi tipi si dividono in razionali e irrazionali. Ai primi appartengono il tipo logico e quello sentimentale; ai secondi il tipo sensoriale e il tipo intuitivo. Infine, le preferenze della libido permettono di distinguere introversi ed estroversi. Tutti i tipi fondamentali possono appartenere ad ambedue le classi, secondo che domini l'introversione o l'estroversione." (p. 442) La tipologia di Jung comporta dunque otto tipi: il tipo logico estroverso, il tipo sentimentale estroverso, il tipo intuitivo estroverso, il tipo sensoriale estroverso, il tipo logico introverso, il tipo sentimentale introverso, il tipo intuitivo introverso, il tipo sensoriale introverso. L'introversione è "il rivolgersi della libido verso l'interno del soggetto. Questo fatto esprime un rapporto negativo del soggetto verso l'oggetto. L'interesse non si dirige verso l'oggetto, ma si ritira e ritorna verso il soggetto stesso. L'uomo introverso pensa, sente e agisce in un modo che mostra chiaramente che è il soggetto a determinare ogni suo atteggiamento, mentre l'oggetto ha solo un'importanza secondaria. L'introversione può avere un carattere intellettuale o affettivo; essa può anche avere come suo carattere distintivo l'intuizione o la sensazione; essa è attiva se il soggetto vuole isolarsi dall'oggetto; è passiva quando il soggetto è incapace di ricondurre sull'oggetto la libido che se ne ritrae. L'introversione abituale è caratteristica del tipo introverso." (p. 422) L'estroversione, viceversa, "significa orientamento della libido verso l'esterno. Chiamo estroverso un rapporto del soggetto con l'oggetto tale che l'interesse soggettivo si muove positivamente verso l'oggetto. Nello stato di estroversione si pensa, si sente e si agisce relativamente all'oggetto, in modo evidente e direttamente percettibile, tanto che l'atteggiamento positivo del soggetto riguardo all'oggetto è fuori di dubbio. In un certo senso, è un atto di trasferimento dell'interesse del soggetto nell'oggetto. Se si tratta di un'estroversione del pensiero, il soggetto si pensa in qualche modo nell'oggetto; se si tratta invece di un'estroversione del sentimento, questo compenetrerà l'oggetto come dall'interno. Nello stato di estroversione il soggetto è fortemente ma non esclusivamente condizionato dall'oggetto. L'estroversione è attiva quando è intenzionale, voluta dal soggetto; passiva, al contrario, quando è l'oggetto che l'ottiene con forza, attirando, suo malgrado, l'interesse del soggetto. L'estroversione abituale produce il tipo estroverso. " (p. 399) In breve: "Si potrebbe definire la tendenza all'introversione quella che in ogni circostanza cerca di dare all'io e ai processi psicologici soggettivi il predominio sugli oggetti e i processi oggettivi, o per lo meno, di affermarli di fronte all'oggetto, dando così più importanza al soggetto che all'oggetto… La tendenza all'estroversione, al contrario, subordina il soggetto all'oggetto, che quindi acquista un valore preponderante. A sua volta, il soggetto non ha più che un'importanza marginale; i processi soggettivi appaiono talora qualcosa di superfluo o dannoso rispetto agli avvenimenti oggettivi." (p. 37) Le due tendenze sono rappresentate entrambe in ogni soggetto con un peso diverso, secondo una logica combinatoria che configura uno spettro. Neppure agli estremi di questo, si danno delle forme pure perché l'orientamento prevalente verso uno dei due mondi - quello interno e quello esterno -, nella cui interfaccia si realizza l'esperienza cosciente, è comunque compensato da un orientamento verso l'altro, che, se non è rappresentato a livello cosciente, si realizza sempre a livello inconscio. L'illustrazione delle caratteristiche generali del tipo estroverso e di quello introverso, che occupa il capitolo dieci, non aggiunge molto alle definizioni riportate se non un'osservazione di estremo interesse, che concerne il tipo estroverso, e la specificazione del compenso che si realizza a livello inconscio nell'uno e nell'altro tipo. Per il tipo estroverso le caratteristiche generali sono le seguenti: "Quando l'orientamento secondo l'oggetto e il dato oggettivo predominano in modo che le decisioni e le azioni più frequenti e importanti non siano condizionate dalle idee soggettive ma dagli atteggiamenti oggettivi, si parla di atteggiamento estroverso; quando questo atteggiamento è abituale, si parla di tipo estroverso. Chi pensa, sente e agisce, in breve, chi vive in accordo "immediato" con le condizioni oggettive e le esigenze che esse pongono, sia in senso positivo che in senso negativo, è un estroverso; vive, cioè, in modo tale che, evidentemente, l'oggetto, dato come determinante, ricopre nella sua coscienza un ruolo più importante che non l'opinione soggettiva. Certamente, ha delle opinioni personali, ma la loro forza determinante è minore di quella delle condizioni esterne… Il suo "interesse" e la sua "attenzione" obbediscono agli avvenimenti oggettivi, in primo luogo a quelli che si producono nel suo entourage immediato… Gli avvenimenti esterni esercitano su di lui un'attrazione pressoché inesauribile, sicché è normale che il suo interesse non si spinga più in là. Le leggi morali dell'azione coincidono con le esigenze corrispondenti della società, in altre parole con la concezione morale comunemente accettata: se l'opinione comune fosse diversa, diverse sarebbero le linee soggettive di condotta morale, senza che per questo l'"habitus" psicologico d'insieme subisca la minima modificazione. Questo rigido condizionamento dei fattori oggettivi non implica, come potrebbe sembrare, un adattamento totale o anche ideale alle condizioni di vita. Dal punto di vista dell'estroverso, evidentemente, un tale "inserimento" nel dato oggettivo deve essere un adattamento totale, perché egli non ha un altro criterio a sua disposizione; ma, considerando la cosa da un punto di vista più ampio, non è affatto certo che i dati oggettivi rappresentino, in ogni caso, la norma. Essi possono, invece, essere anormali in un determinato momento storico o in una situazione particolare; in questo caso, un individuo inserito in simili circostanze agisce nello stile del suo ambiente, ma si trova nello stesso tempo in una situazione anormale in rapporto alle leggi generali della vita… Egli si è "inserito", non "adattato", perché l'adattamento non si risolve solo nell'obbedire, nel sottomettersi senza scosse alle condizioni di vita dell'ambiente: esso richiede l'osservanza di leggi più generali delle condizioni storiche contemporanee e locali. L'inserimento puro e semplice segna il limite del tipo estroverso normale: egli deve la sua normalità al fatto che si inserisce senza gravi attriti nelle circostanze che gli si presentano e che non ha altra pretesa che di adeguarsi alle condizioni oggettivamente fissate;.. farà o eseguirà quello di cui il suo ambiente avrà bisogno in quel momento, quello che ci si aspetterà da lui; si asterrà da ogni innovazione che non sia assolutamente e evidentemente necessaria, e da tutto ciò che possa in qualche modo andare al di là delle aspettative dell'ambiente… Il pericolo che l'estroverso corre è di essere assorbito negli oggetti e di perdervisi totalmente…" (pp. 310-313) La tendenza dell'estroverso a perdersi totalmente negli oggetti viene compensata a livello inconscio da "una tendenza radicalmente egocentrica". Jung scrive: "L'atteggiamento inconscio atto a compensare efficacemente l'atteggiamento cosciente estroverso presenta un carattere, in un certo senso, "introvertente"; questo concentra l'energia sul fattore soggettivo, cioè su quei bisogni e quelle esigenze che hanno subito una repressione od una rimozione… L'assimilazione totale all'oggetto si scontra con la resistenza dell'elemento minoritario represso costituito dal passato e da ciò che esiste fin dall'origine. Questa considerazione del tutto generale permette di comprendere che le pretese inconsce del tipo estroverso hanno un carattere nettamente primitivo, infantile ed egoista… Più l'atteggiamento conscio estroverso è completo, più l'atteggiamento inconscio è infantile ed arcaico. A volte è anche contraddistinto da un egoismo brutale, che supera largamente l'infantile e rasenta la scelleratezza…" (pp. 314-315) L'introverso, viceversa, "si distingue dall'estroverso perché non si orienta, come quest'ultimo, secondo l'oggetto e il dato oggettivo, ma tiene conto soprattutto dei fattori soggettivi… La coscienza introversa vede certo perfettamente le condizioni esteriori, ma dà la preponderanza alle determinanti soggettive che essa crede più importanti… Mentre l'estroverso si basa sempre di preferenza su ciò che gli viene dall'oggetto, l'introverso si richiama alla costellazione che l'impressione esteriore fa nascere nel soggetto." (pp. 346-347) Posto che un fattore soggettivo ("Io chiamo fattore soggettivo l'azione o la reazione psicologica che si confonde con l'impressione oggettiva in un nuovo stato di fatto psichico" p. 347) è presente in ogni conoscenza, c'è da chiedersi qual è la sua specificità per quanto riguarda l'introversione: Jung scrive: "L'eccessivo punto di vista dell'introverso nella coscienza non conduce ad un'utilizzazione migliore e più valida del fattore soggettivo, ma ad una soggettivizzazione artificiale della coscienza, alla quale non si può fare a meno di rimproverare "il suo atteggiamento esclusivamente soggettivo." (p. 348) Quest'esclusività del fattore soggettivo viene compensata a livello inconscio: "Poiché i rapporti dell'io con l'oggetto sono difettosi… si produce nell'inconscio un rapporto di compensazione che si manifesta nella coscienza sotto forma di attaccamento incondizionato ed irresistibile all'oggetto: più l'io cerca di assicurarsi ogni tipo di libertà, di indipendenza, di autonomia e di superiorità, più diventa schiavo del dato oggettivo. La libertà dello spirito viene incatenata ad una miserabile inferiorità economica, la noncuranza nell'azione scompare ansiosamente, una volta o l'altra, dinanzi all'opinione pubblica, la superiorità morale sprofonda nel pantano delle relazioni dubbie, il desiderio di potenza finisce col diventare un penoso desiderio di essere amato. L'inconscio si preoccupa ora del rapporto con l'oggetto, in modo atto a distruggere quanto più definitivamente possibile le illusioni di potenza e le fantasie di superiorità del conscio; l'oggetto prende dimensioni angosciose, nonostante gli sforzi del conscio che tende a comprimerlo. In seguito l'io si sforza ancora di separarsi dall'oggetto e di dominarlo: finalmente si protegge con un sistema formale di sicurezze… per tentare di conservare almeno l'illusione della superiorità; facendo questo, l'introverso si stacca completamente dall'oggetto e si logora interamente in misure di difesa da una parte, e in tentativi infruttuosi dall'altra, per imporsi all'oggetto e per affermarsi." (pp. 350-351) Com'è evidente da queste citazioni, Jung non riesce ad andare molto al di là della definizione originaria per cui l'estroverso è preda dal mondo esterno e l'introverso dal mondo interno. Tale cattura comporta, da un lato, il pericolo di un inserimento nel mondo acritico e passivo (o connivente), e, dall'altro, quello di un progressivo distacco dal mondo. L'intuizione è pregevole, ma rimane un po' sospesa in aria perché i due referenti - il mondo esterno e quello interno - sono assunti in astratto: l'uno senza la storicità sua propria, l'altro senza una struttura intrinseca. Anche i compensi inconsci ipotizzati da Jung sembrano poco più che suggestivi. In nome di che l'inconscio si sforza di equilibrare una situazione sbilanciata? In virtù di una sorta di vis autoregolatrice sua propria, alla quale Jung fa cenno nell'appendice, che varrebbe a controbilanciare l'unilateralità della coscienza. Ma a cosa è dovuta quest'unilateralità? A cosa si può ricondurre la tendenza dell'inconscio verso un equilibrio di livello superiore? Senza una concezione strutturale dell'apparato psichico, incentrata sulla tensione perpetua tra la vocazione sociale dell'uomo, che si riflette nel suo bisogno di appartenere ad un gruppo storicamente e culturalmente determinato, e la sua vocazione ad essere in quanto individuo distinto da tutti gli altri, che ne promuove la differenziazione talora al prezzo di un conflitto con il gruppo, tali domande rimangono senza risposta. Il paradosso è che Jung, a differenza di Freud, queste vocazioni le riconosce entrambe, ma non riesce a dare ad esse il significato di assi strutturali dell'evoluzione e dell'organizzazione cosciente e inconscia della personalità. Ancora meno persuasiva è l'illustrazione degli otto tipi identificati da Jung. Ne La scoperta dell'inconscio (Bollati Boringhieri, Torino 1976), Ellenberger ne riporta una sintesi piuttosto efficace: "Il tipo logico-estroverso dirige la propria vita e quella dei suoi dipendenti secondo regole fisse; il suo pensiero è positivo, sintetico, dogmatico. Il tipo sentimentale-estroverso si attiene ai valori che gli sono stati insegnati, rispetta le convenzioni sociali, fa ciò che è dovuto ed è molto emotivo. Il tipo sensoriale-estroverso è amante dei piaceri, socievole e si adatta facilmente alle persone e alle circostanze. Il tipo intuitivo- estroverso mostra una profonda comprensione delle situazioni della vita, scopre possibilità nuove e ne è attratto, ha talento per gli affari, per i buoni investimenti e per la politica. Abbiamo poi il tipo logico-introverso, che […] è un uomo che manca di senso pratico, si isola dopo le esperienze spiacevoli avute con gli altri, desidera andare al fondo delle cose e mostra un grande coraggio nelle proprie idee, ma spesso è ostacolato da esitazioni e da scrupoli. Il tipo sentimentale-introverso è un individuo senza pretese, calmo, ipersensibile, che non si lascia capire facilmente dagli altri; se si tratta di una donna esercita un potere misterioso sugli uomini estroversi. Il tipo sensoriale-introverso è anch'egli una persona calma, che guarda il mondo con un atteggiamento misto di benevolenza e di divertimento, ed è particolarmente sensibile all'aspetto estetico delle cose. Il tipo intuitivo-introverso è un sognatore ad occhi aperti, che attribuisce massimo valore al corso interiore dei propri pensieri ed è facilmente considerato strano o eccentrico dagli altri." (pp. 812-813). La lettura diretta del testo pone di fronte al fatto che, anziché una tipologie, le descrizioni junghiane sono schizzi di carattere che sembrano fare riferimento a una o più persone conosciute da Jung nel suo contesto storico e che egli assume come rappresentanti di un modo d'essere universale. Quanta attendibilità c'è nel far rientrare nel tipo logico estroverso "riformatori, pubblici accusatori, epuratori di coscienze, o diffusori di importanti innovazioni" (p. 122); nel tipo sentimentale estroverso le donne che si sposano per interesse ("si ama l'uomo che "conviene" escludendo ogni altro; e conviene non perché piace al carattere soggettivo nascosto della donna, che spesso lo ignora, ma perché con la sua posizione, la sua età, la sua fortuna, il suo rango, la rispettabilità della sua famiglia, soddisfa tutte le esigenze più ragionevoli" p. 331); nel tipo sensoriale estroverso l'uomo realista per eccellenza che è "amabile, dotato, il più delle volte, di una vivacissime inclinazione al piacere, brillante e simpatico in compagnia, ed esteta raffinato, di buon gusto" (pp. 337-338), che però può trasformarsi "in volgare gaudente o in esteta raffinato e senza scrupoli" (p. 338); nel tipo intuitivo estroverso "molti commercianti, imprenditori, speculatori, agenti, politici, ecc." (p. 342); nel tipo sentimentale-introverso le donne "molto spesso silenziose, difficilmente accessibili, incomprensibili, troppo spesso dissimulatrici con una maschera infantile o banale, molto spesso anche di temperamento malinconico" (pp.360 - 361), alle quali "si adatta il proverbio. "Non c'è peggior acqua di quella che ristagna" (p. 360); nel tipo sensoriale introverso una personalità tendenzialmente autistica ("assai difficilmente accessibile alla comprensione oggettiva: egli è il più delle volte incomprensibile per se stesso." p. 366); nel tipo intuitivo introverso "il sognatore e visionario mistico per un verso, il bizzarro e l'artista, dall'altro" (p. 370)? Riguardo al tipo logico-introverso, poi, la cui descrizione, ho riportato per esteso, la sua attendibilità, appena credibile per Freud, è del tutto compromessa dall'appartenenza a questo tipo di un buon numero, per esempio, di matematici e di fisici che, pur preda dei loro interessi scientifici, sono spesso persone serene e benevoli. Ricche di spunti suggestivi, le descrizioni tipologiche junghiane oscillano tra l'universalità scientifica cui aspirano e il riferimento ad un determinato contesto socio-storico. Sono in breve troppo fenotipiche. Leggendole con attenzione, poi, nonostante gli sforzi di Jung di mantenere un atteggiamento neutrale, riesce evidente un malcelato pregiudizio nei confronti dell'introversione. Il problema è che, all'epoca della stesura del saggio, dopo sei anni - dal 1913 al 1919 - d'immersione nell'inconscio al fine di autoanalizzarsi, Jung è letteralmente esaltato dall'aver superato un'estrema introversione, che, in una certa misura, lo ha tormentato fin dall'infanzia, allorché appariva come un bambino nervoso, chiuso, ipersensibile, che non cercava la compagnia dei coetanei, e dal sentire di progredire verso una sana estroversione, che lo trasformerà in un adulto amante della vita sociale, benevolo e tollerante con tutti, per quanto con una vita interiore molto ricca. Al di là dell'intuizione di fondo, riferita ai due orientamenti costituzionali di base, c'è insomma nel saggio qualcosa che non convince. Non si tratta solo della difficoltà di accettare come fondamentali le quattro funzioni (il pensiero, il sentimento, l'intuizione, la sensazione) da cui Jung ricava la tipologia. A riguardo, oggi, tali funzioni si riducono sostanzialmente a due - il pensiero e l'emozione -, che vengono ritenute due diverse forme d'intelligenza. L'intuizione viene assunta come una funzione prevalentemente emozionale. La sensazione, come la intende Jung, non esiste, essendo ormai noto che le percezioni sensitive e sensoriali vengono filtrate dalle memorie emozionali e cognitive. I motivi che rendono, a mio avviso, insoddisfacente la teoria junghiana sono due. Il primo è che Jung si è attenuto ad una definizione generale di quei due orientamenti che è poco precisa. L'esistenza di un mondo esterno e di un mondo interno, tra i quali la coscienza funziona come un'interfaccia, è una realtà di fatto inconfutabile, della quale ogni soggetto fa esperienza. Ora, si può pensare che il mondo interno abbia una sua realtà primaria geneticamente determinata, che esso comporti cioè potenzialità introverse e potenzialità estroverse secondo uno spettro combinatorio estremamente ampio. Ma quest'aspetto, nella misura in cui è possibile, andrebbe analizzato preliminarmente rispetto alle interazioni con l'ambiente che determinano o inducono una strutturazione della personalità. Occorrerebbe chiedersi quale sia il significato originario di quelle potenzialità, nella logica della natura e dell'evoluzione umana che continua a produrle rimescolando di continuo il patrimonio genetico. La risposta di Jung, secondo la quale l'introversione comporta un'attrazione naturale per il mondo interno e quella estroversa un'attrazione naturale per il mondo esterno, è orientativamente corretta. Essa però non spiega il significato di quest'attrazione. Non penso di poter fornire una risposta esauriente a riguardo. Forse non si va lontano dal vero ipotizzando che l'estroversione promuova un adattamento alla realtà così com'è, mentre l'introversione si fondi sull'intuizione "viscerale" di mondi e di modi di essere possibili. L'adattamento estroverso non è, da questo punto di vista, solo di ordine passivo: non comporta cioè solo il conformismo. Esso può dare luogo anche ad una trasformazione del mondo "tecnica" per renderlo più adatto ai bisogni umani. L'introversione, viceversa, sembra sempre difettosa sul piano pratico, poiché i mondi e i modi di essere possibili cui fa riferimento sono sostanzialmente di ordine morale, concernono insistentemente i diritti umani, sia per quanto riguarda il soggetto (la cui individuazione richiede talvolta di trascendere l'orizzonte normativo) sia per quanto riguarda i rapporti interpersonali, che vengono vissuti sulla base di un profondo, viscerale rispetto per gli altri. Il secondo motivo per cui la teorizzazione di Jung si può ritenere insoddisfacente è riconducibile al fatto che l'"oggetto" cui egli fa genericamente riferimento non esiste che sotto forma di un determinato mondo storico e culturale che propone ai suoi membri un modello normativo con cui ciascuno deve fare i conti. Questo modello, prodotto dal processo storico, quindi dagli uomini stessi, ma che s'impone ad essi, può, di volta in volta, favorire lo sviluppo delle potenzialità estroverse o introverse, favorire le une a danno delle altre o favorire uno sviluppo alienato di entrambe. Facendo riferimento al pericolo che gli estroversi possano aderire passivamente ad uno stato di cose che viola le leggi della natura umana, Jung sembra rendersi conto del fatto che il mondo non è mai un "oggetto" neutrale. E' evidente che, sottolineando questo pericolo, egli ha in mente l'adesione quasi unanime delle popolazioni tedesche al nazismo. Egli insiste anche, più di una volta, sul fatto che il pregiudizio nei confronti dell’introversione discende dall’egemonia culturale conseguita dal modello estroverso. Purtroppo, però, egli non solo non considera la possibilità che quel modello possa danneggiare lo sviluppo degli introversi, ma alla fine giunge ad attribuire ad essi una certa responsabilità nell’evocare, con il loro comportameto indecifrabile, risposte negative da parte dell’ambiente. Oggi si danno tutti gli elementi per comprovare che questa possibilità non solo esiste, ma si realizza con notevole frequenza. Dire che la nostra società ha adottato univocamente un modello normativo estroverso è una banalità, che serve però a capire in quale misura gli introversi siano ostacolati nella loro individuazione. Io penso che lo stato di cose esistente non favorisca neppure lo sviluppo delle potenzialità estroverse, tant'è che anche gli estroversi pagano un tributo sull'altare del disagio psichico. Si tratta però di una circostanza più rara rispetto alle vicissitudini degli introversi, che vivono perennemente nel dubbio della propria "stranezza" e "inadeguatezza", e manifestano troppo spesso disturbi psichici. Una tipologia psicologica autenticamente scientifica non potrà, di conseguenza, per un verso prescindere dal definire in termini più precisi le potenzialità introverse e estroverse in sé e per sé e, per un altro, prescindere dal valutare l'incidenza delle influenze ambientali - storiche, sociologiche e culturali - sullo sviluppo e sulla strutturazione della personalità. Si tratta di un compito immane, che difficilmente potrà essere portato a compimento. Averlo suggerito è merito di Jung, anche se gli esiti della sua ricerca si possono ritenere insoddisfacenti. Da Tipi psicologiciIntroduzione (pp. 15-18)Nel corso della mia pratica di medico con i malati di nervi, avevo osservato già da molto tempo che esistono, nella psicologia umana, a fianco delle molteplici differenze individuali, delle differenze tipiche: due tipi, che io ho denominato introverso ed estroverso, hanno attirato la mia attenzione. Quando noi esaminiamo il corso di una vita umana, notiamo che il destino di alcuni è determinato per lo più dagli oggetti dei loro interessi, mentre quello di altri è determinato in più larga misura dal loro essere interiore, dalla loro soggettività. Giacché noi tutti propendiamo più o meno verso l'una o l'altra caratteristica, abbiamo una tendenza naturale a vedere tutto secondo il nostro tipo. Metto subito in evidenza questo fatto per evitare possibili equivoci. La descrizione generale dei tipi diviene, a causa di ciò, sensibilmente più difficile. Confido perciò in una grande benevolenza da parte dei miei lettori, nella speranza di essere ben compreso. Sarebbe relativamente semplice, se ogni lettore sapesse a quale categoria appartiene; purtroppo spesso è difficile scoprire in quale di esse si debba collocare una persona, soprattutto quando si tratta di noi stessi, poiché il giudizio che si dà sulla propria personalità è molto incerto. Quest'incertezza così frequente deriva dal fatto che ciascun tipo ben definito ha in sé una tendenza particolare a compensare il carattere unilaterale del tipo a cui appartiene. Questa tendenza risponde ad una necessità biologica, poiché essa ha lo scopo di preservare l'equilibrio psichico. La compensazione crea dei caratteri, o tipi, secondari che complicano la descrizione in modo tale che si è inclini a negare l'esistenza dei tipi e a credere solo alle differenze individuali. Sento la necessità di insistere su questa difficoltà per giustificare alcune particolarità dell'esposizione che segue. Si potrebbe pensare che in effetti la cosa più semplice sia descrivere due casi concreti e metterli a confronto una volta analizzati. Ogni essere umano, invece, possiede i due meccanismi dell'estroversione e dell'introversione; solo il relativo predominio dell'uno o dell'altro determina il tipo. Sarebbero quindi necessari dei notevoli ritocchi per dare alla descrizione il rilievo indispensabile; ciò che equivarrebbe più o meno ad una pietosa bugia. Inoltre le reazioni psicologiche di un essere umano sono talmente complesse che le mie capacità descrittive non sarebbero affatto sufficienti per fornirne un'immagine assolutamente esatta. Debbo dunque limitarmi ad esporre i princìpi che ho tratto dai numerosissimi fatti particolari osservati. Non si tratta quindi di una deduzione a priori, come potrebbe sembrare, ma della esposizione deduttiva di idee tratte dall'esperienza. Spero quindi che queste idee possano contribuire alla chiarificazione di un dilemma che ha causato in passato, e causa tuttora, equivoci e dissensi, non solo nella psicologia analitica, ma anche negli altri campi della scienza, e in particolare nei rapporti tra gli uomini. Ciò spiega perché l'esistenza di due diversi tipi sia conosciuta già da molto tempo; spiega anche perché abbia colpito in un modo o nell'altro sia i conoscitori di uomini sia la riflessione approfondita del pensatore; e come abbia acquisito, per esempio nell'intuizione di Goethe, la forma del principio generale della sìstole e della diastole. I nomi ed i concetti più diversi sono serviti ad esprimere i meccanismi dell'introversione e dell'estroversione: essi corrispondevano ogni volta al punto di vista dell'osservatore. Tuttavia nella diversità delle formulazioni risulta sempre quello che vi è di comune nella concezione fondamentale: il movimento dell'interesse verso l'oggetto, in un caso, e il movimento dell'interesse che va dall'oggetto verso il soggetto e verso i suoi processi psicologici nell'altro caso. Nel primo caso l'oggetto agisce sulle tendenze del soggetto come un magnete: esso le attira e determina in larga misura il soggetto, anzi lo distoglie da se stesso e trasforma le sue qualità per adeguarle all'oggetto stesso, a tal punto che si potrebbe credere che quest'ultimo sia di decisiva e preponderante importanza per il soggetto e che il suo destino e il senso stesso della sua vita consista nell'abbandonarsi ad esso. Nell'altro caso il soggetto è e resta al centro di tutti gli interessi. Sembra, si potrebbe dire, che in ultima istanza, tutta l'energia vitale confluisca nel soggetto, impedendo continuamente all'oggetto di acquistare un'influenza preponderante. Sembra che l'energia scorra via dall'oggetto, che il soggetto sia il magnete che vuole attrarre a sé l'oggetto. Non è affatto semplice condensare in una formula chiara e comprensibile queste tendenze opposte rispetto all'oggetto; infatti vi è il grande pericolo di giungere a formulazioni paradossali che creerebbero più confusione che chiarezza. Si potrebbe definire la tendenza all'introversione quella che in ogni circostanza cerca di dare all'Io e ai processi psicologici soggettivi il predominio sull'oggetto e i processi oggettivi, o per lo meno, di affermarli di fronte all'oggetto. Questo atteggiamento assegna dunque al soggetto un valore più alto di quello dell'oggetto. Di conseguenza il valore di quest'ultimo si trova sempre ad un livello inferiore: esso ha un'importanza secondaria e spesso non è che il segno esteriore, oggettivo, di un contenuto soggettivo, forma sensibile di un'idea che resta l'essenziale; meglio ancora, esso è l'oggetto di un sentimento e questo sentimento vissuto è il fattore determinante che annulla l'oggetto nella sua individualità reale. La tendenza all'estroversione, al contrario, subordina il soggetto all'oggetto, che quindi acquista un valore preponderante. A sua volta il soggetto non ha più che un'importanza marginale; i processi soggettivi appaiono talora qualcosa di superfluo o dannoso rispetto agli avvenimenti oggettivi. È chiaro che le concezioni psicologiche sorte da punti di vista così opposti dovranno presentare degli orientamenti completamente diversi. L'uno vede tutto nella prospettiva della sua concezione, l'altro in quella degli avvenimenti oggettivi. Questi opposti atteggiamenti non sono sostanzialmente che meccanismi opposti. Espansione diastolica verso l'oggetto, presa di possesso di questo, contrazione sistolica e distacco dell'energia dagli oggetti afferrati. Ogni uomo possiede i due meccanismi come espressione naturale del suo ritmo di vita e, senza dubbio, non è per caso che Goethe li designa con i termini fisiologici dell'attività del cuore. L'alternarsi ritmico delle due forme di attività psicologica dovrebbe corrispondere al corso normale della vita. L'estrema complessità delle condizioni esterne in cui viviamo, così come la complessità, forse ancor più grande, delle nostre disposizioni psichiche individuali, permettono raramente alla nostra attività mentale di svolgersi senza turbamento. Avvenimenti esterni e disposizione interiore favoriscono, molto spesso, un meccanismo, mentre limitano od ostacolano l'altro. Quando questo stato diviene cronico appare un tipo, cioè un atteggiamento abituale in cui domina costantemente uno dei due meccanismi, senza tuttavia sopprimere completamente l'altro che appartiene egualmente alla sfera dell'attività psichica. Così non si può avere un tipo puro, nel senso del sopravvento di uno solo dei meccanismi con la completa atrofia dell'altro. Un atteggiamento tipico non indica, dunque, che il predominio relativo di uno dei due meccanismi. La distinzione tra introversione ed estroversione ha permesso di stabilire, innanzitutto, due tipi di categorie psicologiche. Tuttavia questa suddivisione è così superficiale e generale che non ci reca grandi vantaggi. Un esame più approfondito mostra immediatamente che grandi differenze esistono anche fra individui appartenenti allo stesso gruppo. Noi dobbiamo quindi fare ancora un passo in avanti per spiegare in che cosa consistono queste differenze. L'esperienza mi ha insegnato che si possono classificare gli individui non solo in base a una distinzione generale tra estroversi ed introversi, ma anche secondo ciascuna delle funzioni psicologiche fondamentali. Infatti se gli avvenimenti esterni, come pure la disposizione interiore, causano nell'individuo il predominio dell'estroversione o dell'introversione, essi favoriscono nella stessa misura il predominio di una delle funzioni fondamentali. Queste funzioni fondamentali che si distinguono dalle altre sia per la loro purezza che per la loro essenza, sono, secondo la mia esperienza, le seguenti: il pensiero, il sentimento, la sensazione, l'intuizione. Il predominio abituale di una di esse causa l'apparire del tipo corrispondente. Io distinguo, dunque, il tipo logico, quello sentimentale, quello sensoriale e quello intuitivo. Ciascuno di essi, inoltre, può essere introverso od estroverso, come ho già detto,secondo il suo atteggiamento di fronte all'oggetto. Nelle mie precedenti comunicazioni sui tipi psicologici non ho citato queste distinzioni poiché avevo identificato il riflessivo con l'introverso, il sentimentale con l'estroverso. Un esame più approfondito mi ha mostrato che questa concezione era insostenibile. Per evitare malintesi prego il lettore di tener presente la distinzione fatta in questa sede. Per dare allo studio di questioni così complesse la chiarezza necessaria ho dedicato l'ultimo capitolo di quest'opera alla descrizione delle mie concezioni psicologiche.
10. Descrizione generale dei tipi (p. 262-319)1. IntroduzioneVoglio tentare di dare una descrizione generale della psicologia dei tipi. Prima cercherò di caratterizzare i due tipi generali, che ho definito introverso ed estroverso, poi quelli più speciali, la cui peculiarità dipende dal fatto che l'individuo si adatta o si orienta principalmente per mezzo della funzione in lui più differenziata. Vorrei definire i primi, contraddistinti dalla direzione del loro interesse, dal movimento della libido, tipi generali, i secondi tipi funzionali. I tipi generali si distinguono - come è stato ripetutamente rilevato nei capitoli precedenti - per il loro peculiare atteggiamento nei confronti dell'oggetto. L'introverso si comporta astraendo, pensa sempre a privare l'oggetto della sua libido, quasi dovesse difendersi dal suo strapotere. L'estroverso invece ha un atteggiamento positivo nei confronti dell'oggetto. Ne afferma l'importanza al punto da riferire costantemente ad esso il proprio atteggiamento soggettivo. Per lui l'oggetto non solo è importante ma il suo valore va enfatizzato. Questi due tipi sono talmente diversi e la loro antinomia è tale che la loro esistenza è illuminante anche per il profano di psicologia. Tutti noi conosciamo quelle nature chiuse, difficili da capire, spesso ritrose, che costituiscono l'esatto opposto di quelle aperte, facili da capire, spesso serene o quanto meno accessibili, che vanno d'accordo, o litigano, con tutti, ma hanno sempre comunque rapporti con gli altri: li influenzano o si lasciano influenzare da essi. Ovviamente di primo acchito si è portati a considerare casi individuali tali differenze. Ma se si ha modo di conoscere a fondo molte persone si scopre ben presto che non si tratta di casi isolati di una struttura sui generis del carattere, bensì di atteggiamenti tipici molto più diffusi di quanto supponga chi ha un'esperienza psicologica limitata. Come abbiamo potuto dimostrare nei capitoli precedenti, si tratta di un'antinomia di fondo, ora più ora meno marcata, ma sempre evidente negli individui con una personalità spiccata. Incontriamo tali individui non solo fra le persone colte, ma in tutti gli strati sociali; pertanto i nostri tipi sono dimostrabili sia tra i soggetti più semplici, operai e contadini, sia tra quelli più differenziati di una nazione. Non importa che si tratti di maschi o di femmine. Le stesse antinomie si osservano anche fra le donne di tutti gli strati sociali. II fenomeno non potrebbe avere una diffusione così vasta, non potrebbe essere così generalizzato, se attenesse alla coscienza, se si trattasse di atteggiamenti consapevoli, voluti. Se così fosse, sarebbe rilevabile in una classe omogenea della popolazione - costituita da individui con lo stesso grado di educazione e di cultura - e quindi localmente limitata. Invece così non è. Questi due tipi sono reperibili in tutti gli strati sociali. Nella medesima famiglia un figlio può essere estroverso, l'altro introverso. Poiché il tipo di atteggiamento (estroverso o introverso), quale fenomeno generale e per certo casualmente distribuito, non può essere imputato alla coscienza, esso deve senza dubbio la sua esistenza a un fattore inconscio, istintuale. Quindi l'antinomia tra i tipi, se è un fenomeno psicologico generale, deve avere i suoi predecessori biologici. Dal punto di vista biologico il rapporto fra soggetto e oggetto è sempre un rapporto di adattamento in quanto presuppone influssi modificanti dell'uno sull'altro. Queste modificazioni creano l'adattamento. Pertanto i tipici atteggiamenti nei confronti dell'oggetto sono processi di adattamento. La natura conosce due principali specie, fondamentalmente diverse, di adattamento e di conseguente sopravvivenza degli organismi viventi. La prima consiste nell'aumento della fertilità, cui si accompagnano minori capacità difensive e minore durata di vita del singolo individuo; la seconda nella diminuzione della fertilità cui si accompagnano molteplici mezzi di autoconservazione. Questa antinomia biologica a me sembra non solo l'analogo ma anche la base generale delle nostre due specie psicologiche di adattamento. Mi limiterò a segnalare da un lato la peculiarità dell'estroverso, che fa costantemente dono di sé e si consegna al mondo, dall'altro la tendenza dell'introverso a difendersi dalle sollecitazioni esterne, a trattenere (dentro di sé) il più possibile le energie che sono in diretto rapporto con l'oggetto e a crearsi invece una posizione più forte e più sicura possibile. Quindi Blake non ha torto a definire i due tipi uno «prolific», l'altro «devouring». Come dimostra la biologia generale, le due vie sono entrambe percorribili e i due tipici atteggiamenti a modo loro portano entrambi al successo. Ciò che l'uno realizza intrattenendo molteplici rapporti, viene raggiunto dall'altro mediante un «monopolio». Il fatto che talvolta palesano un atteggiamento tipico già bambini molto piccoli ci autorizza a supporre che non sia necessariamente la lotta per l'esistenza — come la si intende generalmente — a sviluppare un dato atteggiamento. Giustamente si potrebbe obiettare che anche l'infante, e persino il lattante, ha già da compiere una prestazione psicologica di adattamento, in quanto nel bambino induce a reazioni specifiche la peculiarità degli influssi materni. E’ un'argomentazione poggiante su fatti indubitabili; però resta il fatto, altrettanto indubitabile, che due figli della stessa madre possono manifestare già precocemente il tipo opposto senza che sia possibile dimostrare un cambiamento nell'atteggiamento della madre. Ovviamente non intendo sottovalutare l'enorme importanza dell'influsso esercitato dai genitori, tuttavia questa esperienza ci autorizza a concludere che il fattore determinante va cercato nella disposizione del figlio. Il fatto che a perfetta parità di condizioni esterne un figlio presenta questo tipo, l'altro quello, è imputabile, in ultima analisi, alla disposizione individuale. Naturalmente mi riferisco solo ai casi che sono in condizioni normali. In condizioni anormali, quando cioè le madri presentano atteggiamenti estremi, quindi abnormi, ai figli può venir imposto un atteggiamento più o meno corrispondente violentando la loro disposizione individuale, che se non fosse stata alterata da influssi esterni abnormi forse avrebbe scelto un altro tipo. Quando ha luogo tale alterazione del tipo provocata da influssi esterni, l'individuo in seguito diventa spesso nevrotico, e la guarigione è possibile solo attraverso la ricostruzione dell'atteggiamento che gli corrisponde per natura. Per quanto riguarda la disposizione peculiare posso dire solo che esistono evidentemente individui che hanno una maggiore facilità o capacità ad adattarsi a un modo di essere invece che a un altro o per i quali è più utile essere in un modo piuttosto che in un altro. Potrebbe trattarsi di fattori inaccessibili alla nostra conoscenza, di fattori fisiologici. Che possa trattarsi di questi secondo me è verosimile. Nella mia esperienza ho avuto modo di osservare che in determinate circostanze l'inversione del tipo può compromettere gravemente il benessere fisiologico dell'organismo, in quanto nella maggior parte dei casi causa un forte esaurimento. 2. Il tipo estroversoPer amore di chiarezza e affinché la rappresentazione sia completa è necessario tener separate, nella descrizione di questo tipo e di quelli che seguono, la psicologia della coscienza da quella dell'inconscio. Quindi descriveremo per primi i fenomeni attinenti alla coscienza. a. Atteggiamento generale della coscienza Come è noto, ognuno di noi si orienta in base ai dati che gli comunica il mondo esterno; tuttavia sappiamo che ciò può verificarsi in una misura più o meno determinante. Uno dal freddo dell'ambiente si lascia immediatamente indurre a indossare il soprabito, l'altro ritiene superfluo farlo perché considera più giusto temprare le proprie forze; l'uno ammira il tenore in auge perché lo ammirano tutti, l'altro non lo ammira, non perché non gli piaccia, ma perché non è detto che ciò che tutti ammirano sia sempre degno di ammirazione; l'uno si adegua alla situazione esistente, perché, secondo lui, l'esperienza insegna che non è possibile fare altrimenti; l'altro è convinto che, anche se le cose sono andate in un dato modo migliaia di volte, esiste sempre la possibilità che per la milleunesima volta vadano in un altro modo ecc. Il primo considera i fatti esterni per quelli che sono e si comporta di conseguenza, l'altro si riserva di avere un'opinione personale, cioè fra se stesso e l'oggetto frappone la sua mente. Ora, quando l'orientamento in direzione dell'oggetto e del dato oggettivo prevale al punto che le più importanti e principali decisioni e azioni sono condizionate non da opinioni soggettive ma da condizioni oggettive, abbiamo a che fare con un tipo estroverso. Chi pensa, sente e agisce, in una parola: vive, in un modo direttamente corrispondente in senso sia positivo che negativo alle situazioni oggettive e alle loro esigenze, è estroverso. Nel suo comportamento l'oggetto, quale grandezza determinante, ha nella sua coscienza un ruolo più importante di quello delle sue opinioni soggettive. Ha idee soggettive, certo, però la loro forza è inferiore a quella delle condizioni oggettive esterne. Non si aspetta mai di incontrare dentro di sé qualche fattore assoluto perché conosce solo fattori esterni. Epimeteicamente il suo interno soggiace alle esigenze esterne, non senza lotta, è vero, però la lotta finisce sempre col trionfo delle condizioni oggettive. La sua coscienza guarda verso l'esterno perché la decisione determinante gli arriva sempre all'esterno. Ma gli arriva da fuori perché si aspetta che gli arrivi da fuori. Ora, tutte le peculiarità della sua psicologia risultano da questo atteggiamento di base, in quanto non poggiano sul primato di una data funzione psicologica né su caratteristiche individuali. Interesse e attenzione si appuntano sugli eventi oggettivi, in particolare su quelli dell'ambiente immediatamente circostante. Destano l'interesse dell'estroverso sia gli uomini che le cose. Di conseguenza anche le sue azioni sono direttamente influenzate dagli uomini e dalle cose. Sono direttamente legate a determinazioni e dati oggettivi e sono spiegabilissime partendo da essi. L'azione è chiaramente riferita a situazioni oggettive. Rispetto agli stimoli dell'ambiente non è meramente reattiva, tuttavia è sempre conforme a situazioni reali, trova posto sufficiente e adeguato dentro i limiti del dato oggettivo, e non tende ad uscirne. Lo stesso vale per l'interesse: gli eventi oggettivi esercitano uno stimolo praticamente inesauribile, sicché normalmente l'interesse si appunta solo su essi. Le leggi morali dell'agire coincidono con le corrispondenti esigenze della società e rispettivamente con la concezione generalmente accettata. Se la concezione morale valida per tutti fosse diversa, sarebbero diverse le linee di condotta morali soggettive, rimanendo invariato l'habitus psicologico nel suo insieme. Questa stretta dipendenza da fattori oggettivi non corrisponde affatto, come si potrebbe pensare, a un adattamento totale o addirittura ideale alle condizioni esistenziali. Però all'estroverso il proprio conformarsi al dato oggettivo non può apparire che un adattamento perfetto, perché non sa valutare in altro modo. Mentre a chi valuta le cose dall'alto non risulta affatto che il dato oggettivo è anche in tutte le circostanze il «normale». Le condizioni oggettive in determinati luoghi o periodi storici possono essere anormali. Per cui un individuo che si è conformato a tali situazioni ha assimilato lo stile anormale dell'ambiente, ma insieme a tutto il suo ambiente è al contempo in una situazione anomala rispetto alle leggi universali della vita. In tale contesto l'individuo può anche avere successo, però lo ha finché - avendo violato le leggi universali della vita - non rovina insieme a tutto il suo ambiente. E rovinerà con la stessa sicurezza con cui si è conformato al dato oggettivo. Si è conformato, non adattato; infatti l'adattamento richiede più di un semplice adeguamento alle condizioni dell'ambiente (vedi l’Epimeteo di Spitteler). Richiede il rispetto di quelle leggi che sono più generali delle condizioni locali e storiche del momento. Il limite del tipo estroverso normale è rappresentato dal fatto che esso non fa che conformarsi. Il tipo estroverso da un lato deve la sua «normalità» al fatto che si è conformato con relativa facilità alla situazione esistente - e per sua natura non desidera che di soddisfare le possibilità del dato oggettivo: infatti o sceglie il mestiere o la professione che in un dato luogo o momento offre, per esempio, le migliori prospettive; o addirittura fa o realizza quanto il suo ambiente si aspetta che faccia o le cose di cui l'ambiente necessita; oppure si astiene da ogni innovazione che non sia facilmente realizzabile o che vada al di là delle aspettative dell'ambiente. Dall'altro lato tuttavia la sua «normalità» fa sì che l'estroverso non tiene sufficientemente conto della realtà dei propri bisogni soggettivi. Questo, se vogliamo, è il suo vero punto debole. La tendenza di questo tipo è volta all'esterno al punto che trascura anche il fatto più soggettivo in assoluto: il modo in cui si sente il corpo. Essendo troppo poco «esterno» questo fattore viene preso in scarsa considerazione, per cui viene a mancare il soddisfacimento dei bisogni elementari, indispensabile per il benessere fisico. Di conseguenza ne soffrono sia il corpo sia la psiche. Però l'estroverso non se ne accorge affatto e l'ambiente domestico se ne accorge ancora meno. La perdita dell'equilibrio si evidenzia in tutta la sua portata solo quando compaiono sensazioni fìsiche abnormi. Questo fatto, essendo tangibile, l'estroverso non può trascurarlo. Naturalmente lo ritiene concreto e «oggettivo» perché per la sua forma mentis altro non esiste. Tutto il resto secondo lui è frutto dell'«immaginazione». Un atteggiamento eccessivamente estroverso può diventare così irrispettoso del soggetto da sacrificarlo totalmente alle cosiddette esigenze oggettive, per esempio ampliando in continuazione un'attività commerciale perché ci sono ordinazioni e perché le possibilità che si offrono vanno soddisfatte. L'estroverso è esposto al rischio di farsi fagocitare dall'oggetto e di perdere totalmente se stesso. I disturbi funzionali (nervosi) e fisici, reali, che compaiono hanno un significato compensatorio: costringono il soggetto ad autolimitarsi. Quando i sintomi sono funzionali possono esprimere simbolicamente la situazione psicologica. Per esempio in un cantante indotto dalla fama rapidamente raggiunta a un eccessivo dispendio delle proprie energie, per un blocco nervoso vengono a mancare improvvisamente le note alte. In un uomo che partendo da inizi modestissimi ha raggiunto una posizione influente e molto promettente compaiono, con meccanismo psicogeno, tutti i sintomi del «mal di montagna». Un uomo che sta per sposare una donna dal carattere molto problematico, che egli idolatra e sopravvaluta enormemente, viene colto da un crampo nervoso alla faringe che gli impedisce di deglutire. Riesce ad assumere due sole tazze di latte al giorno: operazione che richiede 3 ore di tempo, gli impedisce di far visita alla fidanzata e lo costringe a pensare unicamente ad alimentarsi. Un uomo che non ha più la forza di sostenere la fatica richiesta da un'attività che grazie ai suoi meriti è diventata troppo impegnativa, viene colto da accessi nervosi nei quali avverte l'impellente bisogno dì bere e diventa rapidamente preda di un alcolismo isterico. Credo che la nevrosi di gran lunga più frequente nell'estroverso sia l'isteria. Un caso tipico di isteria è sempre caratterizzato da un rapporto troppo stretto con le persone dell'ambiente e dal fatto che il soggetto si conforma alle circostanze fino a sconfinare nell'imitazione. Un tratto fondamentale della natura isterica è la costante tendenza a farsi notare, ad apparire interessante. Suoi correlati sono la suggestionabilità e la influenzabilità. Sono innegabilmente isterici gli estroversi troppo comunicativi, quelli che pur di comunicare arrivano a raccontare cose inventate; di qui il tema della menzogna isterica. Il «carattere» isterico è all'inizio una accentuazione dell'atteggiamento normale, che però poi viene complicata da reazioni compensatorie da parte dell'inconscio, le quali, opponendosi alla eccessiva estroversione, costringono l'energia psichica ad introvertirsi facendo comparire disturbi fisici. La reazione dell'inconscio dà luogo a un'altra categoria di disturbi, fa nascere sintomi che hanno un carattere prevalentemente introverso: fra gli altri la forte tendenza a fantasticare. Dopo questa caratterizzazione generale dell'atteggiamento introverso passiamo ora alla descrizione delle modificazioni delle principali funzioni psicologiche indotte dall'atteggiamento estroverso. b. Atteggiamento dell'inconscio Può sembrare strano che io parli di un «atteggiamento dell'inconscio». Come ho spiegato a sufficienza, secondo me il rapporto fra l'inconscio e il conscio è un rapporto di tipo compensatorio, pertanto come la coscienza così anche l'inconscio deve avere un atteggiamento. Nel capitolo precedente ho rilevato la tendenza dell'estroverso a una certa unilateralità, cioè alla prevalenza in lui del fattore oggettivo nell'evento psichico. Il tipo estroverso è costantemente tentato di prodigarsi a favore dell'oggetto e di assimilare il suo soggetto all'oggetto. Ho indicato, con dovizia di dettagli, la conseguenza di un atteggiamento eccessivamente estroverso, vale a dire la dannosa regressione del fattore soggettivo. Quindi c'è da aspettarsi che una compensazione psichica dell'atteggiamento estroverso della coscienza potenzi il momento soggettivo. In altri termini dobbiamo dimostrare che nell'inconscio esiste una tendenza fortemente egocentrica. È in grado di dimostrarla l'esperienza pratica. Qui non entro nel merito della casistica, che affronto nei capitoli seguenti, dove cerco di rappresentare l'atteggiamento dell'inconscio caratteristico di ogni singolo tipo funzionale. In questo capitolo tratto unicamente la compensazione di un atteggiamento estroverso generale, perciò mi limito a una caratterizzazione anch'essa generale dell'atteggiamento compensatorio dell'inconscio. L'atteggiamento dell'inconscio tende a compensare l'atteggiamento estroverso della coscienza; pertanto è «introverso». Concentra l'energia sul momento soggettivo, cioè su quelle esigenze e quei bisogni che sono stati repressi o rimossi dall'atteggiamento estroverso della coscienza. Come dovrebbe essere chiaro già da quanto è stato detto nel capitolo precedente, un orientamento verso l'oggetto e il dato oggettivo violenta, sopraffa una quantità di moti, opinioni, desideri e bisogni e li priva di quell'energia che spetta loro per natura. L'uomo non è una macchina che sia possibile trasformare, onde adibirla a scopi diversi, e che poi funzioni perfettamente come prima. L'uomo porta in sé la propria storia e quella dell'umanità. E il fattore storico rappresenta una necessità vitale che occorre soddisfare e gestire accortamente. Nel nuovo il vecchio deve avere il suo spazio e coesistere. Perciò la totale assimilazione all'oggetto solleva le proteste della minoranza repressa del vecchio da sempre esistente. Basta partire da questa semplice riflessione per capire perché i bisogni inconsci del tipo estroverso hanno un carattere egotistico primitivo e infantile. Quando Freud dice che l'inconscio è capace «solo di desiderare» dice una verità che è tale in particolare per l'inconscio del tipo estroverso. Il suo conformarsi al dato oggettivo e la sua assimilazione ad esso ostacolano la coscientizzazione di un numero sufficiente di moti soggettivi. Queste tendenze (pensieri, desideri, affetti, bisogni, sentimenti ecc.) assumono un carattere regressivo corrispondentemente al grado di rimozione che hanno subito. Vale a dire, meno vengono riconosciute, più infantili e arcaiche diventano. L'atteggiamento della coscienza le priva in gran parte dell'energia di cui dispongono, cioè lascia loro solo quel tanto di energia di cui non riesce ad appropriarsi. Ebbene questo residuo di energia, che tuttavia possiede ancora una forza da non sottovalutare, è ciò che si definisce istinto primordiale. L'istinto non può essere estirpato mediante misure arbitrarie perché è l'espressione energetica di una precisa disposizione organica, cioè il frutto di una lenta trasformazione maturatasi nel corso di molte generazioni. Così in ogni tendenza repressa residua e conserva tutta la sua efficienza un cospicuo quantum di energia, che corrisponde alla forza degli istinti, sebbene la sottrazione di energia l'abbia reso inconscio. Più l'atteggiamento estroverso della coscienza è marcato, più quello dell'inconscio è infantile e arcaico. Spesso l'atteggiamento dell'inconscio è caratterizzato da un brutale egoismo molto più forte di quello del bambino e che si avvicina alla perversione. Qui fioriscono in pieno i desideri incestuosi di cui parla Freud. Ovviamente questi sono totalmente inconsci e all'occhio del profano rimangono nascosti, però rimangono nascosti solo finché l'atteggiamento estroverso della coscienza non raggiunge un grado maggiore. Perché quando si arriva a una forte accentuazione dell'atteggiamento estroverso della coscienza l'inconscio esce allo scoperto producendo dei sintomi. Cioè l'egoismo e l'infantilismo arcaici dell'inconscio perdono il loro carattere compensatorio ed entrano in conflitto con l'atteggiamento della coscienza. All'inizio si rileva una «assurda» accentuazione dell'atteggiamento della coscienza, intesa a reprimere, a soffocare ulteriormente l'inconscio, ma alla fine l'atteggiamento della coscienza viene sconfitto, subisce una reductio ad absurdum. Tale sconfitta può essere una catastrofe oggettiva nel senso che gli scopi oggettivi vengono tramutati in scopi soggettivi. È ciò che successe a un tipografo che per due decenni aveva lavorato duramente e da semplice dipendente era diventato proprietario di un'azienda molto importante, finché per far fronte alle enormi dimensioni che la sua attività aveva assunto trascurò tutti gli altri suoi interessi. E il suo impegno, la sua attività finì per fagocitarlo, e lo portò alla rovina col seguente meccanismo: per compensare il suo esclusivo interesse per l'azienda il suo inconscio mobilitò i suoi ricordi d'infanzia. Da ragazzo gli era piaciuto molto dipingere e disegnare. Orbene, invece di dedicarsi a questa attività unicamente per compensare l'eccessiva dedizione all'azienda, egli la canalizzò nell'azienda stessa immaginando di poter dare ai suoi prodotti una veste artistica. Disgraziatamente le sue fantasie si tradussero in realtà: prese a produrre sulle tracce di un gusto primitivo e infantile, col risultato che dopo qualche anno l'azienda fallì. Si era comportato conformandosi a uno degli «ideali della nostra cultura», secondo il quale l'uomo deve concentrare tutti i suoi sforzi sullo scopo ultimo da raggiungere. Però essendo andato troppo oltre diventò preda dei propri bisogni soggettivi, che erano infantili. Ma la catastrofica soluzione può essere anche di tipo soggettivo, può assumere cioè la forma del collasso nervoso. Tale collasso è dovuto sempre al fatto che l'inconscio, la sua azione antitetica, ha il potere di paralizzare l'attività della coscienza; vale a dire le esigenze dell'inconscio si impongono categoricamente alla coscienza e portano a una catastrofica spaccatura che può assumere due aspetti: o l'individuo non sa più cosa vuole e non desidera più ciò che desiderava, o a un tratto vuole troppo, ma ha una voglia eccessiva di cose impossibili. La repressione dei bisogni infantili e primitivi, spesso necessaria per motivi culturali, può portare alla nevrosi o all'abuso di stupefacenti - alcool, morfina, cocaina ecc. In casi ancora più gravi la spaccatura porta al suicidio. Più la coscienza si rifiuta di riconoscere le energie delle tendenze dell'inconscio, più queste oppongono resistenza alla rimozione; perciò quando non vengono riconosciute affatto cessano di essere compensatorie per diventare distruttive. E cessano di essere compensatorie precisamente quando raggiungono quella profondità che corrisponde a un livello culturale che è del tutto incompatibile col nostro. A partire da questo momento le tendenze inconsce formano un blocco che contrasta sotto ogni aspetto l'atteggiamento della coscienza, un blocco la cui esistenza porta al conflitto aperto. La compensazione dell'atteggiamento della coscienza ad opera dell'inconscio crea generalmente l'equilibrio psichico. Un atteggiamento estroverso normale - è ovvio - non significa mai che l'individuo si comporta sempre e ovunque secondo lo schema estroverso. Nel medesimo individuo si possono osservare in tutte le circostanze anche eventi psicologici nei quali entra in gioco il meccanismo dell'introversione. Anzi noi definiamo estroverso un habitus solo quando in esso il meccanismo dell'estroversione è solo prevalente. In questo caso la funzione psichica più differenziata viene costantemente estrovertita, mentre le funzioni meno differenziate vengono introvertite, cioè la funzione più importante sottostà al controllo della coscienza e della sua intenzione, mentre le funzioni meno differenziate sono anche meno consce o parzialmente inconsce e molto meno soggette all'arbitrio della coscienza. La funzione più importante è sempre espressione della personalità conscia, è intento, volontà e prestazione della coscienza, mentre le funzioni meno differenziate fanno parte delle cose che succedono. Può trattarsi di lapsus (linguae o calami) o di altre «sviste», ma anche di esternazioni per metà o per tre quarti intenzionali, essendo le funzioni meno differenziate anche meno consce. Ne è un esempio il tipo affettivo estroverso che intrattiene con l'ambiente un rapporto affettivo, ma ogni tanto esprime giudizi di una estrema improntitudine. Questi giudizi nascono dal suo pensiero meno differenziato e meno conscio, che egli controlla solo in parte e che per giunta è insufficientemente rapportato all'oggetto, per cui possono suonare sommamente irrispettosi. Nell'atteggiamento estroverso le funzioni meno differenziate rivelano costantemente una dipendenza straordinariamente soggettiva da un espresso egocentrismo e da prevenzioni personali, palesando così il loro stretto rapporto con l'inconscio. L'inconscio esce allo scoperto sempre nelle funzioni meno differenziate. È impensabile che l'inconscio rimanga eternamente sepolto sotto tanti strati sovrapposti e possa essere messo a nudo solo mediante un faticoso lavoro di scavo in profondità. Al contrario l'inconscio entra di continuo nell'evento psicologico conscio, e in misura tale che talvolta l'osservatore non riesce a stabilire quali elementi del carattere appartengano alla personalità conscia e quali a quella inconscia, specie negli individui che si esprimono in misura maggiore di altri. Molto dipende, ovviamente, anche dall'atteggiamento dell'osservatore, dal fatto cioè che esso sia portato a cogliere maggiormente il carattere conscio o quello inconscio di una personalità. In generale l'osservatore che ha tendenza a giudicare coglierà maggiormente il carattere conscio, mentre quello che ha tendenza a percepire sarà influenzato soprattutto dal carattere inconscio. Infatti il giudizio si interessa maggiormente alla motivazione conscia dell'evento psichico, mentre la percezione registra per lo più il mero evento. Se però utilizziamo nella stessa misura percezione e giudizio, una personalità può apparirci al contempo introversa ed estroversa, in quanto di primo acchito non riusciamo a stabilire a quale atteggiamento appartenga la sua funzione più importante. In questi casi può aiutare a raggiungere una concezione valida solo un'analisi approfondita delle qualità funzionali. Bisogna appurare quale funzione è totalmente soggetta al controllo e alla motivazione della coscienza e quali funzioni hanno un carattere di spontaneità e casualità. La prima funzione è sempre più differenziata di queste ultime, che per giunta mostrano tratti di infantilismo e di primitivismo. Qualche volta la prima funzione dà l'impressione della normalità, mentre le altre hanno in sé qualcosa di abnorme o di patologico. e. Le peculiarità delle funzioni psicologiche fondamentali nell'atteggiamento estroverso il pensiero - Dato l'atteggiamento estroverso il pensiero si orienta in direzione dell'oggetto e dei dati oggettivi. Questo orientamento del pensiero dà luogo a una espressa peculiarità. Il pensiero generalmente è alimentato da un lato da fonti soggettive, in ultima istanza da fonti inconsce, dall'altro da dati oggettivi forniti dalle percezioni sensoriali. Il pensiero estroverso è determinato più da questi ultimi che dalle fonti soggettive. Il giudizio presuppone sempre un metro, un criterio, uno strumento di misura; per il giudizio estroverso è valido e determinante principalmente il criterio derivato dalla situazione oggettiva, che può essere rappresentata sia da un fatto oggettivo, percepibile dai sensi, sia da un'idea oggettiva, perché anche un'idea oggettiva è un dato esterno e derivato dall'esterno, anche se approvato dal soggetto. Perciò il pensiero estroverso può non essere un pensiero oggettivo meramente concreto, può essere benissimo anche un pensiero meramente astratto, purché sia dimostrato che le idee con cui viene pensato provengono dall'esterno, cioè sono trasmesse e fornite da tradizione, educazione e formazione mentale e spirituale. Quindi per valutare un pensiero, per poter dire se esso è estroverso o no, è necessario stabilire se il criterio cui si impronta il giudizio è trasmesso dall'esterno o è di origine soggettiva. Un altro criterio di valutazione è offerto dall'orientamento delle conclusioni. Occorre cioè stabilire se il pensiero privilegi o no un orientamento verso l'esterno. Il fatto che si occupa di argomenti concreti non dimostra che si tratta di un pensiero estroverso; infatti pensando io posso occuparmi di un argomento concreto sia astraendo il pensiero da esso, sia concretizzandolo per mezzo di esso. Quindi anche quando il mio pensiero si occupa di cose concrete, e quindi potrebbe essere definito estroverso, resta da stabilire quale orientamento esso seguirà successivamente, se cioè condurra o meno a dati oggettivi, a fatti esterni o a concetti generali già dati. È proprio questa meta ultima a caratterizzarlo. Nel caso del pensiero pratico del commerciante, del tecnico e di chi si occupa di scienze esatte l'orientamento verso l'oggetto è chiarissimo. Per quanto riguarda il pensiero del filosofo può nascere un dubbio, è necessario chiedersi se la direzione del suo pensiero abbia o no come meta ultima le idee. Pertanto da un lato bisogna accertare se queste idee siano mere astrazioni ricavate da esperienze fornite dall'oggetto e quindi rappresentino solo concetti collettivi superiori comprendenti una somma di fatti oggettivi; dall'altro occorre appurare se queste idee (qualora non si tratti di astrazioni derivate da esperienze dirette) provengano dalla tradizione o dall'ambiente spirituale. Se la risposta è sì, anche queste idee appartengono alla categoria dei dati oggettivi e quindi anche questo pensiero può essere definito estroverso. Benché io intenda rappresentare la natura del pensiero introverso non in questo ma in un altro capitolo, ritengo indispensabile anticipare alcune osservazioni. Infatti se si riflette su quanto ho detto del pensiero estroverso è facile arrivare alla conclusione che per pensiero estroverso io intendo tutto ciò che si intende per pensiero. Un pensiero che non ha per meta ultima fatti oggettivi o idee generali non merita - potremmo dire - di essere definito pensiero. So bene che il nostro tempo e i suoi più autorevoli rappresentanti conoscono e riconoscono solo il modo estroverso di pensare, il pensiero di tipo estroverso. Ciò è dovuto al fatto che tutto il pensiero che emerge (che sale in superficie), sotto forma di scienza e filosofia o di arte, o nasce direttamente dall'oggetto o sfocia nelle idee generali. Per queste due ragioni esso appare, se non sempre evidente, sostanzialmente comprensibile e quindi relativamente valido. In questo senso si può dire che è conosciuto solo l'intelletto estroverso, cioè quello orientato verso il dato oggettivo. Però esiste - e vengo così a parlare dell'intelletto introverso - anche un altro tipo di pensiero cui è persino difficile negare questa definizione, un tipo di pensiero che non si orienta né verso l'esperienza oggettiva diretta né verso idee generali e trasmesse dall'oggetto. A quest'altro tipo di pensiero arrivo nel seguente modo: quando pensando mi occupo di un oggetto concreto o di un'idea generale in modo che la direzione del mio pensiero riconduce a temi miei, questo processo mentale non è l'unico processo che in questo momento si svolge nel mio cervello. Prescindo da tutti i possibili sentimenti e sensazioni che accompagnano il corso dei miei pensieri disturbandolo in misura maggiore o minore, e rilevo che esso, iniziato dal dato oggettivo e rivolto all'oggettivo, è anche costantemente in rapporto col soggetto. Questo rapporto è una conditio sine qua non, perché senza di esso il corso dei miei pensieri non avrebbe luogo. Anche se è rivolto il più possibile verso il dato oggettivo esso è pur sempre il corso di pensieri miei e non può impedire che ad esso si mescoli il dato soggettivo, né può farne a meno. Anche se mi sforzo di dare ai miei pensieri una direzione più oggettiva possibile, non posso impedire, senza spegnere in essi la luce della vita, che abbia luogo uno svolgimento soggettivo degli stessi, che quindi evidentemente fa parte del processo mentale. Questo processo soggettivo parallelo ha la tendenza naturale e più o meno inevitabile a rendere soggettivo il dato oggettivo, cioè ad assimilarlo al soggetto. Ora, quando l'accento principale cade sull'evento soggettivo si ha per l'appunto un tipo di pensiero che è in antitesi col tipo estroverso, cioè quel pensiero orientato verso il soggetto e il dato soggettivo che io definisco pensiero introverso. Quest'altro orientamento sviluppa un pensiero che non è determinato né da fatti né da dati oggettivi ma nasce dal dato soggettivo e si rivolge a idee soggettive o a fatti di natura soggettiva. Non intendo addentrarmi ulteriormente in questo argomento, mi limito a constatarel'esistenza del pensiero soggettivo per fornire il «pezzo» che integra necessariamente il processo mentale estroverso e così chiarire la sua natura. Quindi il pensiero estroverso si realizza perché prevale l'orientamento oggettivo. Questa circostanza non modifica minimamente la logica del pensiero, è soltanto responsabile della differenza fra i modi di pensare e fra i pensatori che James tratta sotto la voce «problema dei temperamenti». Come abbiamo detto, l'orientamento verso l'oggetto non cambia affatto la natura della funzione intellettiva, modifica solo il suo modo di apparire. Poiché è rivolta al dato oggettivo appare legata all'oggetto; si ha l'impressione che se non fosse orientata verso l'esterno non esisterebbe, che sia conseguente a fatti esterni. Si ha l'impressione che il pensiero estroverso, malgrado l'agilità con cui si muove nello spazio oggettivamente delimitato, possa raggiungere l'acme solo sfociando in una idea valida per tutti, sia del tutto privo di libertà e qualche volta «miope», sia costantemente prodotto dal dato oggettivo e possa arrivare a conclusioni solo con la sua approvazione. Quella che sto descrivendo è solo l'impressione che il pensiero estroverso desta nell'osservatore, il quale però nota l'apparenza del pensiero proprio perché osserva da un punto di vista diverso. Altrimenti non la noterebbe. Vale a dire, vede l'apparenza e non la natura di questo pensiero perché lo vede da un punto di vista diverso. Invece l'osservatore che partecipa della natura di questo pensiero afferra la sua natura e non la sua apparenza. La valutazione basata sulla mera apparenza non rende giustizia alla natura di questo pensiero, perciò è per lo più negativa. Ma questo pensiero non è, data la sua natura, meno fertile e meno creativo del pensiero introverso, differisce da quest'ultimo solo perché è al servizio di obiettivi diversi da quelli del pensiero introverso. Questa differenza diventa particolarmente sensibile quando il pensiero estroverso fa proprio un tema specifico del pensiero soggettivamente orientato. Ciò avviene, per esempio, quando una convinzione soggettiva viene analiticamente spiegata come originata da fatti oggettivi o come conseguenza di idee oggettive. Ma alla nostra coscienza oggettivamente (scientificamente) orientata la differenza tra i due modi di pensare risulta ancora più chiara quando il pensiero soggettivamente orientato tenta di far entrare il dato oggettivo in contesti non oggettivamente dati, cioè di assoggettarlo a un'idea soggettiva. Entrambi i processi sono avvertiti come una sopraffazione, in quando si oscurano reciprocamente, compiono un reciproco oscuramento. Pertanto il pensiero introverso sembra essere puramente arbitrario, quello estroverso incommensurabilmente banale; ecco perché i due punti di vista sono costantemente in conflitto. Si potrebbe credere che sia facile porre fine a questo conflitto separando i fattori di natura soggettiva da quelli di natura oggettiva. Invece questa separazione, che non pochi hanno tentato di fare, è purtroppo impossibile. E anche se fosse possibile sarebbe una calamità, perché ognuno dei due orientamenti è unilaterale e ha una validità limitata, per cui necessita dell'influenzamento da parte dell'altro. Quando il dato oggettivo subordina a sé il pensiero, lo abbassa al rango di mera appendice di se stesso, per cui esso non è più in grado di liberarsi del dato oggettivo e di formulare un concetto indipendente. In tal caso il processo intellettivo diventa un mero «ripensamento», non nel senso della «riflessione», ma nel senso della pura e semplice «imitazione», che rappresenta ciò che appariva e direttamente esisteva nel dato oggettivo. Ovviamente tale processo mentale riconduce direttamente al dato oggettivo, però mai al di là di esso e quindi nemmeno alla annessione della esperienza a un'idea oggettiva. Invece quando questo pensiero ha per tema un'idea oggettiva è in grado di raggiungere la singola esperienza pratica, però rimane paralizzato, fermo in uno stato più o meno tautologico. Ne offre esempi illuminanti la forma mentis materialistica. Quando, data la maggiore determinazione da parte dell'oggetto, il pensiero estroverso soggiace al dato oggettivo, esso perde se stesso nella singola esperienza e produce un accumulo di materiali empirici «non digeriti». La opprimente massa di esperienze isolate alquanto scorrelate produce uno stato di dissociazione del pensiero, che esige una compensazione psicologica. Questa è rappresentata da un'idea semplice e generale che fornisce un nesso, anche se vago, al tutto accumulato ma internamente sconnesso. Si prestano a questo scopo ad esempio le idee di «materia» o di «energia». Però quando il pensiero è eccessivamente ancorato non a fatti esterni ma a un'idea sopravvenuta, la povertà di questo pensiero sarà compensata da una quantità smisurata di fatti unilateralmente raggruppati secondo un criterio relativamente limitato, con la conseguenza che andranno totalmente perduti aspetti delle cose molto più importanti e molto più significativi. La grande maggioranza della enorme quantità di opere della cosiddetta letteratura scientifica dei nostri giorni deve la propria esistenza a questo orientamento sbagliato. il tipo intellettivo estroverso - Come insegna l'esperienza, nello stesso individuo non tutte le funzioni psicologiche fondamentali hanno la stessa intensità o lo stesso grado di sviluppo. Di solito prevale una funzione, sia per la sua forza che per il suo sviluppo. Ora, quando tra le funzioni psicologiche prevale quella intellettiva, cioè quando l'individuo porta a compimento la sua prestazione esistenziale guidato principalmente dal pensiero, dalla riflessione, di guisa che tutte le azioni in qualche modo importanti nascono o tendono a nascere da motivi intellettivamente pensati, si tratta di un tipo intellettivo, che può essere introverso o estroverso. Ci occuperemo per prima cosa del tipo intellettivo estroverso. Questo sarà per definizione un individuo che, naturalmente solo qualora sia un tipo puro, tende a far derivare tutta la sua vita esternamente espressa da conclusioni intellettive orientate costantemente verso il dato oggettivo: verso fatti oggettivi o verso idee generalmente valide. Oltre che a se stesso, questo tipo attribuisce potere determinante anche all'ambiente nei confronti della realtà oggettiva o della formula intellettiva oggettivamente orientata. Commisurerà a questa formula il bene e il male, il bello e il brutto. È giusto tutto ciò che corrisponde a questa formula, è sbagliato tutto ciò che è in contrasto con essa; è casuale, accidentale ciò che accade senza interessarla. Poiché sembra corrispondere al senso comune, questa formula diventa una legge generale che va osservata sempre e in ogni luogo, da' singolo e dalla collettività. Come il tipo intellettivo estroverso si assoggetta a questa formula, così deve assoggettarsi ad essa anche il suo ambiente, perché se non lo fa è nel torto, contravviene alla legge generale - e quindi è irrazionale, immorale e incosciente. La sua morale gli vieta di tollerare eccezioni. Il suo ideale dev'essere realizzato in tutti i casi perché è convinto che esso è la formulazione più pura della realtà oggettiva e pertanto non può che essere una verità universalmente valida, irrinunciabile ai fini della salvezza dell'umanità. Lo guida non l'amore del prossimo ma un superiore criterio di giustizia e verità. Tutto ciò che per sua natura è ritenuto in contrasto con questa formula è giudicato imperfetto, destinato a fallire, senza prospettive, da eliminare appena possibile o, qualora non si riesca ad eliminarlo, patologico. Se la tolleranza nei confronti di ciò che è patologico, sofferente e anormale fa parte della formula, l'intellettivo estroverso si adopera onde promuovere apposite istituzioni: fondando ospizi, carceri, campi di lavoro ecc. o studiando piani o progetti di salvataggio. Di solito il motivo «giustizia e verità» non è sufficiente ad indurre all'attuazione di tali progetti, occorre anche anche il fattore «amore del prossimo», che più che con una formula intellettiva ha a che fare col sentimento. Il motivo «sarebbe bene» o «si dovrebbe» ha un ruolo importante. Tuttavia quando è sufficiente la formula, questo tipo può avere un ruolo di grande rilevanza come riformatore, pubblico accusatore e moralizzatore o come propagatore di innovazioni importanti. Invece più la formula è ristretta più questo tipo è sofistico, cavilloso, un criticone sicuro del fatto suo che mira a far entrare forzatamente in uno schema se stesso e gli altri. Quindi la maggior parte di questi tipi si muove fra questi due estremi. Corrispondentemente alla natura dell'atteggiamento estroverso gli effetti prodotti da questa personalità sono tanto più favorevoli e positivi quanto più sono lontani dal centro. I migliori sono all'esterno, alla periferia, della sua sfera d'influenza. Più si avvicinano al suo campo d'azione più negative sono le conseguenze della sua tirannia. Alla periferia pulsa ancora una vita diversa, che avverte la verità della formula come preziosa aggiunta al resto. Mentre più ci si avvicina al campo di forza della formula più si spegne ogni vita in tutto ciò che non corrisponde alla formula. Subiscono più di ogni altro le nefaste conseguenze di tale formula i congiunti dell'intellettivo estroverso, perché sono i primi ad esserne inesorabilmente colpiti. Ma ancora più di loro ne subisce le conseguenze il soggetto stesso - e qui giungiamo a un altro aspetto della psicologia di questo tipo. Il fatto che non è mai esistita né mai esisterà una formula intellettiva che comprenda e possa esprimere a pieno e in modo adeguato la vita e tutte le sue possibilità fa sì che vengono inibite o escluse altre importanti forme di vita e di attività. In questo tipo verranno inibite per prime tutte le forme di vita che dipendono dal sentimento: le attività estetiche, il gusto, il senso dell'arte, la cura dell'amicizia ecc. Forme irrazionali quali esperienze religiose, passioni e simili spesso vengono addirittura totalmente cancellate. Queste forme di vita, in certi casi straordinariamente importanti, sostengono un'esistenza per la massima parte inconscia. Anche se esistono esseri eccezionali capaci di sacrificare l'intera vita a una data formula, la maggior parte delle persone a lungo andare non riesce a tollerare tale esclusività. Prima o poi - a seconda delle circostanze esterne e della disposizione interna - le forme di vita rimosse dall'atteggiamento intellettivo si palesano indirettamente, disturbando il tenore di vita conscio. Quando questa turbativa raggiunge un grado notevole si parla di nevrosi. Tuttavia nella maggior parte dei casi non si arriva a questo punto perché l'individuo provvede istintivamente a prevenirle, nel senso che si concede qualche strappo (attenuazione della formula) rivestendolo di razionalità, si crea cioè una valvola di sicurezza. Poiché il soggetto è del tutto o in parte inconsapevole di queste tendenze e funzioni escluse dall'atteggiamento conscio, esse rimangono in uno stato di relativa involuzione, o di inferiorità, rispetto alle funzioni consce. Se sono inconsce restano mescolate e fuse ad altri contenuti dell'inconscio, per cui assumono un carattere di bizzarria. Quando sono consce hanno un ruolo secondario, malgrado la loro grande importanza per il quadro psicologico nel suo insieme. Vengono inibiti dalla coscienza principalmente i sentimenti, che, essendo quelli che contrastano maggiormente con la formula intellettiva, sono anche quelli che vengono rimossi con maggior determinazione. Però nessuna funzione può venir esclusa del tutto, può venir solo fortemente alterata. I sentimenti, se si formano arbitrariamente e si lasciano subordinare, debbono sostenere l'atteggiamento intellettivo della coscienza e adeguarsi alle sue intenzioni. Questo però è possibile solo entro certi limiti: alcuni sentimenti non si lasciano subordinare e quindi debbono essere rimossi. Se la rimozione ha successo essi scompaiono dalla coscienza, poi sotto la soglia della coscienza sviluppano un'attività che contrasta con le intenzioni della stessa, un'attività che qualche volta produce degli effetti, sorprendendo il soggetto che ne ignora l'esistenza. Per esempio un altruismo imposto dalla coscienza viene disturbato da un segreto egoismo, di cui lo stesso individuo ignora l'esistenza, che imprime ad azioni altruistiche il proprio sigillo. Intenti etici puri possono cacciare l'individuo in situazioni critiche nelle quali talvolta si ha la sensazione che siano determinanti motivi tutt'altro che etici. Ci sono «salvatori» o volontari difensori della moralità che all'improvviso appaiono bisognosi essi stessi di essere salvati. Il loro desiderio di salvare li può indurre a ricorrere a mezzi illeciti. Esistono idealisti estroversi talmente convinti del valore della loro missione che per vedere realizzato il loro ideale non si peritano di ricorrere alla menzogna e ad altri mezzi disonesti. Nel campo della scienza non sono pochi i deplorevoli esempi di studiosi eminentissimi così convinti della verità e validità universale della loro formula che - conformandosi al principio: il fine giustifica i mezzi - per realizzare il loro ideale hanno falsificato le prove. Solo una funzione affettiva di second'ordine, che opera seducendo inconsciamente, può portare a tali aberrazioni persone per il resto degne della massima stima. La inferiorità del sentimento in questo tipo si evidenzia anche in un altro modo. Corrispondentemente alla prevalente formula intellettiva l'atteggiamento conscio è impersonale, spesso al punto da ledere fortemente gli interessi personali. Quando l'atteggiamento conscio è spinto all'estremo viene cancellata ogni preoccupazione personale, compreso l'interesse per la propria persona. Il soggetto arriva a trascurare la propria salute e la propria posizione sociale e, in nome e al servizio dell'ideale, danneggia la propria famiglia sui piani finanziario, morale e della salute. In tutti i casi trascura l'altro, a meno che non si tratti di un sostenitore della medesima formula. Per cui non di rado succede che mentre la sua famiglia, i suoi stessi figli conoscono in lui solo un tiranno senza cuore, il suo ambiente meno ristretto lo ritiene dotato di profonda umanità. Non malgrado, ma proprio a causa della forte impersonalità dell'atteggiamento della coscienza, i sentimenti nell'inconscio sono molto personali e lo inducono a covare segreti pregiudizi, cioè a interpretare in modo erroneo la oggettiva opposizione alla formula, cioè come malvolere verso la propria persona, a giudicare sempre negativamente le qualità degli altri, onde privare preventivamente di forza le loro argomentazioni, ovviamente per tutelare la propria sensibilità. La sensibilità inconscia rende il loro linguaggio pieno di insinuazioni e molto spesso aspro e aggressivo. Trattandosi di una funzione in sott'ordine l'affettività dell'intellettivo estroverso è espressamente rancorosa. Maggiore è il suo sacrificio personale in nome dell'obiettivo da raggiungere, più meschini e balzani sono i suoi sentimenti. Tutto il nuovo che non sia già presente nella formula è visto, e corrispondentemente giudicato, attraverso un velo di odio inconscio. Intorno alla metà del secolo scorso un medico che godeva fama di grande umanità minacciò di licenziamento un suo assistente perché aveva usato il termometro; la formula prevedeva che a temperatura corporea venisse diagnosticata dalle pulsazioni cardiache. Si conoscono - come è noto — moltissimi casi del genere. Più sono rimossi, più i sentimenti influenzano negativamente il pensiero, che per il resto può essere impeccabile. Il punto di vista intellettivo che, per il valore che effettivamente ha, meriterebbe il riconoscimento della sua validità generale, subisce ad opera della sensibilità personale inconscia una modificazione che lo rende - tipicamente rigido e dogmatico. Su di esso si trasferisce l'autoaffermazione della personalità. La verità non è più libera di agire per forza propria, ma poiché il soggetto si identifica con essa viene trattata come una sensibile pupattola che un critico cattivo ha fatto soffrire. Il critico viene demolito, con le argomentazioni più incredibili, a buon bisogno anche con invettive personali. La verità «deve venire a galla». Finché il pubblico incomincia ad accorgersi che, più che della verità, si tratta di ciò che ne ha fatto il suo personale produttore. Talvolta il dogmatismo del criterio intellettivo subisce ad opera di sentimenti personali inconsci anche modificazioni dovute, più che al sentimento in senso stretto, ad altri fattori inconsci che nell'inconscio sono fusi col sentimento rimosso. Benché la ragione stessa dimostri che ogni formula intellettiva può essere una verità valida solo entro certi limiti e quindi non esclusiva, la formula prevale su tutti gli altri punti di vista prevaricandoli. Si sovrappone e si sostituisce a qualsiasi concezione più generale, più indeterminata e quindi più modesta e più vera, sostituendosi anche a quella concezione universale che definiamo religione, e diventa essa stessa una religione, sebbene per sua natura non abbia niente a che fare con alcunché di religioso. Pertanto assume anche il carattere di assolutezza tipico delle religioni. Diventa, per così dire, un falso credo intellettivo, una superstizione intellettuale. Ma tutte le tendenze psicologiche che essa rimuove si raccolgono e accumulano nell'inconscio dando luogo a una controposizione che fa nascere dei dubbi. Per difendersi dai dubbi l'atteggiamento conscio si rafforza fino a raggiungere il fanatismo; infatti il fanatismo altro non è che dubbio supercompensato. Lo sviluppo culmina in un'accentuazione eccessiva della posizione della coscienza e nella nascita di una posizione dell'inconscio totalmente antitetica, che al contrario, ad esempio, del razionalismo conscio è estremamente irrazionale, al contrario della posizione scientifica moderna del punto di vista conscio è estremamente arcaica e «superstiziosa». Così nascono quelle «teorie» fasulle e ridicole, note dalla storia delle scienze, sulle quali finiscono per inciampare molti ricercatori illustri. Qualche volta in un uomo siffatto il lato inconscio si personifica in una donna. Secondo la mia esperienza questo tipo - sicuramente ben noto al lettore - è frequente in particolare fra i maschi. In generale il pensiero è una funzione che prevale più nell'uomo che nella donna. Quando il pensiero prevale in una donna, per quanto mi risulta, si tratta quasi sempre di un pensiero che è al servizio di un'attività mentale prevalentemente intuizionale. Il pensiero dell'intellettivo estroverso è positivo, cioè crea. Porta a fatti nuovi o a concezioni generali di materiali empirici disparati. Il suo giudizio è generalmente sintetico. Anche quando scompone, poi costruisce, o perché al di là della scomposizione mira a realizzare una nuova composizione, o perché al materiale dato aggiunge qualcosa di nuovo. Perciò questo tipo di giudizio potrebbe essere definito qualificante. In ogni caso non è mai del tutto svalutante o distruttivo, ma sostituisce sempre un valore distrutto con un altro. Questa caratteristica è dovuta al fatto che nel tipo intellettivo il pensiero è il canale nel quale scorre la massima parte della sua energia vitale. Nel suo pensiero si manifesta la vita, che avanza incessantemente, per cui il suo pensiero assume un carattere progressivo, produttivo. Non è mai statico o regressivo. Lo diventa quando nella coscienza non prevale la funzione intellettiva. In questo caso il pensiero, essendo meno importante, è privo della vitale attività positiva che possiede nel caso contrario, è subordinato ad altre funzioni, diventa epimeteico, cioè si limita a ruminare, a riflettere sul passato e sul già avvenuto. In questo caso il pensiero non è più dinamico-progressivo, ma statico, perché è creativa un'altra funzione. Il suo giudizio acquista un espresso carattere di inerenza in quanto si limita ad elaborare il materiale già esistente senza mai uscire dal suo ambito. Si limita a fare constatazioni più o meno astratte, senza dare al materiale empirico un valore che esso già non possegga. Il giudizio inerente del pensiero estroverso è orientato verso l'oggetto; vale a dire la sua constatazione ha luogo sempre nel senso di un significato ogget'tivo della esperienza. Pertanto rimane non solo sotto l'influsso del dato oggettivo ma addirittura alla mercé della singola esperienza, e su di essa si pronuncia solo constatando il già esistente. Questo tipo di pensiero è frequente nelle persone che su ogni impressione o esperienza non possono fare a meno di esprimere un giudizio, che è razionale e senza dubbio validissimo, ma non esce mai dai limiti dell'esperienza. È una valutazione che dice soltanto «Ho capito la tal cosa, sono in grado di capirla». E tutto finisce qui, più in là non si va. Un giudizio siffatto equivale ad associare un'esperienza a un contesto oggettivo, del quale però chiaramente quella coscienza fa già parte. Quando invece primeggia maggiormente nella coscienza una funzione diversa da quella intellettiva, il pensiero, essendo generalmente cosciente e non direttamente dipendente dalla funzione predominante, ha un carattere negativo. Essendo subordinato alla funzione predominante può apparire positivo, però a un esame approfondito si scoprirà che in realtà la sostiene con argomentazioni che sono spesso in aperto contrasto con le leggi della logica, che gli sono proprie. Quindi per la presente considerazione questo pensiero è privo di ogni interesse. Noi preferiamo occuparci della qualità del pensiero che non si lascia subordinare a un'altra funzione, ma resta fedele al proprio principio. Osservare ed esaminare questo pensiero è difficile, perché nel caso concreto è sempre, più o meno, rimosso dall'atteggiamento della coscienza. Perciò per «trovarlo» occorre scavare nei recessi della coscienza, a meno che, eludendo la sorveglianza della coscienza, esso non salga in superficie spontaneamente. Ma per lo più è necessario farlo emergere, per esempio chiedendo al soggetto: «Ma in fondo, riflettendoci su bene, lei cosa pensa della tale cosa?». O, ricorrendo a un'astuzia, formulare la domanda, per esempio, così: «Cosa pensa che io pensi della tale cosa?». Quest'ultima forma va adottata quando il vero pensiero è inconscio e quindi proiettato. Il pensiero in questo modo indotto a salire in superficie presenta caratteristiche tipiche per le quali io lo definisco negativo. Il suo habitus è caratterizzato come meglio non si potrebbe dalle parole: «nient'altro che». Goethe ha personificato questo pensiero nella figura di Mefistofele. Questo pensiero tende soprattutto ad essere riduttivo, a banalizzare l'oggetto del suo giudizio, a spogliarlo del suo vero significato. Quando fra due uomini nasce un conflitto di natura chiaramente oggettiva, il pensiero negativo dice: «Cherchez la femme». Quando un uomo propugna o diffonde una causa, il pensiero negativo, invece di cercare di scoprire il significato della stessa, si chiede: «Quanto ci guadagna costui?». Fa parte di questo «capitolo», come tante altre espressioni e valutazioni che non ritengo necessario citare, anche la frase attribuita a Moleschott: «L'uomo è ciò che mangia». La distruttività di questo pensiero come pure la sua limitata utilità non necessitano di ulteriori illustrazioni. Ma esiste anche un altro genere di pensiero negativo, che di primo acchito non sembra tale: è il pensiero teosofico, che si sta rapidamente diffondendo in tutte le parti del mondo, forse come fenomeno reattivo al precedente materialismo. Il pensiero teosofico apparentemente non è affatto riduttivo, anzi eleva ogni cosa alla dignità di idea trascendente e universale. Per esso un sogno non è più un sogno e basta, ma un'esperienza su un «altro piano». La telepatia, fenomeno ancora inspiegato, si spiegherebbe molto facilmente: si tratterebbe di «vibrazioni» che da una persona passano a una altra. I disturbi nervosi sarebbero dovuti a un'alterazione del «corpo astrale». Certe caratteristiche antropologiche delle popolazioni delle coste dell'atlantico vengono tranquillamente rapportate all'Atlantide, il continente scomparso. E così via. Basta aprire un libro di teosofia per rimanere pressoché folgorati dalla notizia che tutto è già stato spiegato e che la «scienza dello spirito» non ha più enigmi. Questo tipo di pensiero in fondo è negativo esattamente quanto il pensiero materialistico. La teosofia è in errore né più né meno del pensiero materialistico, che attribuisce i fenomeni psicologici a modificazioni chimiche delle cellule dei gangli, all'espansione (diastole) e contrazione (sistole) dei prolungamenti delle cellule o a secrezioni interne. L'unica differenza sta nel fatto che mentre il materialismo si rifa alla fisiologia, che ci è familiare, la teosofia si rifa ai concetti della metafisica indiana. Come l'attribuzione del sogno a un imbarazzo gastrico non spiega cosa è il sogno, così l'attribuzione della telepatia alle «vibrazioni» non spiega cosa è la telepatia. Cosa è infatti la «vibrazione»? Entrambe le spiegazioni non solo non spiegano, non si reggono, ma sono anche distruttive perché stornando l'interesse dal problema reale e pilotando l'attenzione nel primo caso in direzione dello stomaco, nel secondo in quella delle immaginarie vibrazioni, impediscono che venga studiato seriamente. Sono entrambi modi di pensare sterili e sterilizzanti. La loro negatività è dovuta al fatto che questo pensiero è totalmente gratuito, cioè privo di forza probante, e quindi improduttivo. È un pensiero al rimorchio di altre funzioni. L'affettività - Nell'atteggiamento estroverso il sentimento si orienta verso il dato oggettivo, cioè la irrinunciabile determinante di questo modo di sentire è l'oggetto. Esso concorda con valori oggettivi. Chi intende il sentimento sempre solo come un fatto soggettivo avrà difficoltà a capire la natura del sentire estroverso, perché il sentire estroverso si è affrancato al massimo dal fattore soggettivo e si è subordinato all'influsso dell'oggetto. Anche quando è apparentemente indipendente dalla qualità dell'oggetto concreto il sentire estroverso è pur sempre al servizio di valori tradizionali o validi per tutti. Io mi sento di definire un oggetto «bello» o «buono» non perché trovo che è «bello» o «buono» valutandolo soggettivamente, ma perché definirlo «bello» o «buono» è adeguato, opportuno; opportuno nel senso che il giudizio opposto altererebbe in qualche modo la situazione affettiva generale. Tale giudizio opportuno non equivale a una simulazione o addirittura a una menzogna; è un atto di adeguamento. Così un dipinto, per esempio, può essere definito «bello» perché generalmente si presuppone che sia bello un quadro appeso in un salotto e firmato da un pittore noto, o perché la qualifica di «brutto» potrebbe dispiacere alla famiglia del suo felice possessore, o perché l'osservatore intende creare un'atmosfera affettivamente gradevole nella quale ogni cosa dev'essere avvertita come piacevole. Tali sentimenti sono commisurati a determinanti oggettive. In quanto tali, sono genuini e rappresentano la funzione affettiva nella sua globalità. Come il pensiero estroverso si affranca il più possibile dagli influssi del soggetto, così il sentire estroverso deve compiere un processo di differenziazione fino a spogliarsi di ogni apporto soggettivo. Le valutazioni che conseguono all'atto affettivo corrispondono ai valori oggettivi o, quanto meno, a criteri di giudizio tradizionali e generalmente accettati. A questo modo di sentire va attribuito in gran parte il fatto che i teatri, le sale da concerto o la chiesa sono frequentati da un gran numero di persone: si tratta di persone animate da sentimenti positivi e commisurati. A questo modo di sentire dobbiamo anche le mode e - cosa ancora più importante - il sostegno positivo e diffuso fornito ad iniziative sociali e filantropiche e a istituzioni culturali di altro genere. In queste istituzioni il sentire estroverso si evidenzia come fattore creativo. Senza questo tipo di affettività sarebbe impensabile, ad esempio, una socialità bella e armoniosa. In questo senso l'affettività estroversa è una forza benefica che opera razionalmente quanto il pensiero estroverso. Però questo effetto benefico va perduto appena l'oggetto acquista un potere eccessivo, perché in questo caso l'affettività estroversa induce il soggetto a consegnarsi all'oggetto. Di conseguenza l'oggetto assimila il soggetto, per cui il sentimento viene privato della sua individualità e diventa impersonale. Il carattere personale del sentire scompare. E il sentimento diventa freddo, razionale e perde di credibilità. Tradisce segrete intenzioni, o comunque all'osservatore imparziale fa sospettare la loro esistenza. Non desta più quella sensazione di fresca genuinità che accompagna sempre un sentimento autentico, ma palesa affettazione e ipocrisia anche quando l'intenzione egocentrica è forse ancora del tutto inconscia. Questa affettività eccessivamente estroversa soddisfa le aspettative estetiche, però non parla più al cuore, parla soltanto ai sensi o, peggio ancora, al solo intelletto. Può occupare una posizione sul piano estetico, ma niente di più. È diventata arida. Se questo processo si sviluppa ulteriormente, il sentimento subisce una dissociazione stranamente piena di contraddizioni. Si appropria di ogni oggetto con valutazioni affettive, e si instaura un gran numero di rapporti che contrastano fra loro. Poiché un fenomeno del genere non potrebbe verificarsi se esistesse un soggetto in qualche modo capace di affermarsi, alla fine vengono soppressi anche gli ultimi residui di un punto di vista realmente personale. Il soggetto viene assorbito dai singoli processi affettivi al punto tale che l'osservatore ha l'impressione che esista solo un processo affettivo e manchi completamente un soggetto che lo compie. A questo punto il sentimento ha perso del tutto il suo originario calore umano e suscita l'impressione dell'affettazione, della fatuità, della non attendibilità e, nei casi peggiori, dell'isteria. IL tipo affettivo estroverso - Poiché il sentimento è una peculiarità della psicologia femminile più «tangibile» del pensiero, i tipi affettivi più pronunciati sono frequenti in particolare nel sesso femminile. Quando prevale l'affettività estroversa parliamo di tipo affettivo estroverso. Gli esempi di questo tipo che ho presenti sono quasi senza eccezione femminili. Questo genere di donne vive sul filo della propria affettività, che l'educazione ha reso una funzione controllata dalla coscienza. Nei casi non-estremi, benché il fattore soggettivo sia già stato fortemente represso, il sentimento ha un carattere personale. Perciò la personalità appare come conformata alla situazione oggettiva. I sentimenti corrispondono alle situazioni oggettive e ai valori generalmente accettati. Ciò si evidenzia nella massima misura nella cosiddetta scelta amorosa. Questa donna ama l'uomo «giusto», l'uomo adatto, lui e nessun altro; ed esso è adatto, giusto, non perché corrisponda alla nascosta natura soggettiva della donna - che essa stessa per lo più non conosce -, ma perché soddisfa le esigenze della ratio per quanto riguarda età, patrimonio, importanza e rispettabilità della di lui famiglia. Naturalmente tale formulazione potrebbe essere considerata ironica e dequalificante se io non fossi assolutamente convinto che corrisponde alla scelta da lei fatta anche il sentimento amoroso di questa donna. E’ autentico e non simulato. I matrimoni «per ragionamento» sono numerosissimi e non sono affatto i peggiori. Finché i loro mariti o figli possiedono la «costituzione psichica» giusta, quella che esse si aspettano, queste donne sono buone mogli e buone madri. Si sentono «nel giusto» solo quando nient'altro turba il sentimento. Ma siccome nulla disturba il sentimento quanto il pensiero, in questo tipo - è comprensibile - il pensiero viene represso il più possibile. Con questo non intendo dire che questo tipo di donna non pensa; al contrario, essa pensa, pensa molto e con molta intelligenza, però il suo pensiero non è mai autonomo, ma una appendice epimeteica del suo sentire. Non è capace di pensare ciò che non è in grado di sentire. «Non posso pensare una cosa che non sento», mi ha detto una volta una paziente in tono risentito. Entro i limiti posti dal sentimento sa pensare molto bene, mentre ogni ragionamento che potrebbe portare a un risultato che turberebbe il sentimento, per logico che sia, viene respinto «a limine». Semplicemente non viene pensato. Perciò questa donna apprezza e ama tutto ciò che è bene secondo il giudizio oggettivo; il resto per lei esiste solo fuori di lei. Il quadro però cambia quando l'importanza dell'oggetto diventa eccessiva. Come ho già spiegato, in questo caso l'oggetto assimila il soggetto al punto che quest'ultimo scompare. L'affettività perde ogni carattere personale; diventa sentimento in sé e per sé; si ha l'impressione che la personalità si dissolva totalmente nei sentimenti che nascono via via. Ora, poiché nella vita si avvicendano in continuazione situazioni che scatenano sentimenti differenti o addirittura contrastanti, la personalità si dissolve in altrettanti sentimenti differenti. Si ha l'impressione che il soggetto sia ora una cosa ora un'altra completamente diversa; il soggetto sembra avere - cosa impossibile - tante personalità. Invece no, la base dell'Io rimane identica a se stessa, rimane quella che è, perciò si oppone recisamente all'alternarsi degli affetti. Di conseguenza l'osservatore si accorge che il sentimento manifestato non è più espressione del soggetto che sente, ma riflette un'alterazione del suo Io. Quando la dissociazione fra l'Io e lo stato affettivo che nasce volta a volta diventa intollerabile l'inconscio non si limita più a esercitare una funzione compensatoria, ma entra in aperta opposizione. All'inizio il soggetto manifesta un'espansività esagerata, un'affettività rumorosa e insistente che manca di credibilità, non convince, appare vuota. Anzi fa già capire che cerca di compensare la resistenza opposta dall'inconscio, e fa nascere il sospetto che il giudizio su tale affettività potrebbe essere completamente diverso. Poi, dopo non molto, esso cambia realmente. Basta che la situazione cambi anche di poco perché la valutazione sia di segno opposto. Tale esperienza fa sì che l'osservatore non si fidi più né del primo né del secondo giudizio, e incominci ad astenersi dal giudicare. Ora però questo tipo tiene soprattutto a instaurare un intenso rapporto affettivo con le persone che lo circondano; perciò, onde vincere le loro riserve, è costretto a raddoppiare i suoi sforzi. Il che peggiora la situazione e dà il via a un circolo vizioso. Più intenso è il rapporto affettivo con l'oggetto, maggiore è la resistenza che oppone l'inconscio, più l'inconscio esce allo scoperto. Come abbiamo già visto, il tipo affettivo estroverso reprime il più possibile il pensiero perché il pensiero è capace di turbare il sentimento più di ogni altra funzione. A sua volta il pensiero, onde arrivare a risultati in qualche modo «puri», esclude al massimo il sentimento, perché nulla è capace di turbare e alterare il pensiero quanto i valori affettivi. Per questo il pensiero del tipo affettivo estroverso, quale funzione indipendente, viene rimosso. Come ho già menzionato, non viene rimosso del tutto ma solo in quanto una logica inesorabile obbliga a perseguire conclusioni che non vanno d'accordo col sentimento. Il pensiero è ammesso come servo, anzi come schiavo del sentimento. Ha la spina dorsale spezzata, non può realizzarsi secondo la propria legge. Ma poiché esistono una logica e deduzioni innegabilmente giuste, evidentemente esiste anche un luogo nel quale esse si realizzano. Ebbene, questo luogo non è la coscienza ma l'inconscio. Questo è il motivo per il quale in questo tipo il contenuto dell'inconscio è primariamente un pensiero sui generis, cioè infantile, arcaico e negativo. Il pensiero inconscio ha una funzione compensatoria finché l'affettività conscia conserva il suo carattere personale, finché la personalità non viene assorbita dai singoli stati affettivi. Ma quando la personalità si dissocia e si dissolve in singoli stati affettivi fra loro contrastanti l'identità dell'Io va perduta: il soggetto diventa inconsapevole, precipita nell'inconscio. E una volta nell'inconscio, il soggetto si associa al pensiero inconscio e lo aiuta a prendere coscienza. Più forte è il rapporto affettivo conscio, cioè più esso spersonalizza (priva dell'Io) il sentimento, più forte è l'opposizione inconscia, che opera col seguente meccanismo: intorno agli oggetti maggiormente apprezzati si raccolgono pensieri inconsci che li spogliano spietatamente del loro valore. Qui si attaglia perfettamente alla situazione l'espressione «nient'altro che», che distrugge la supremazia del sentimento ancorato agli oggetti. Il pensiero inconscio emerge sotto forma di idee, spesso ossessive, sempre negative e svalutanti. Pertanto nelle donne di questo tipo esistono momenti nei quali i pensieri più cattivi si ancorano proprio agli oggetti che il sentimento apprezza maggiormente. Per spogliarli del loro valore e ridurre il sentimento a «nient'altro che» il pensiero negativo si serve di tutti i pregiudizi infantili e di tutti paragoni capaci di svuotare gli oggetti del loro significato e mobilita tutti gli istinti primordiali. Faccio presente, a margine - benché non si tratti di un'osservazione marginale - che in questo modo entra in gioco anche l'inconscio collettivo, la totalità delle immagini primordiali, dalla cui elaborazione nasce la possibilità di una rigenerazione dell'atteggiamento su altre basi. In questo tipo la nevrosi più frequente è l'isteria col suo caratteristico inconscio mondo di idee sessuali-infantili. Riepilogo dei tipi razionali - Io definisco razionali o giudicanti i due tipi precedenti perché in essi prevalgono le funzioni che giudicano in base al raziocinio. Li accomuna il fatto che la loro vita è fortemente soggetta al giudizio della ragione. Però dobbiamo tener presente che esistono due punti di vista, quello della psicologia soggettiva dell'individuo e quello dell'osservatore che percepisce e giudica dall'esterno. E se questo osservatore affidandosi all'intuito cogliesse unicamente ciò che appare giudicherebbe di conseguenza, pronuncerebbe cioè un giudizio esattamente opposto a quello del soggetto. Nella sua totalità la vita di questo tipo non dipende soltanto dal giudizio della ratio ma anche, e pressappoco nella stessa misura, dalla irrazionalità inconscia. Ora chi osserva soltanto ciò che appare, senza tener conto dell'economia interna della coscienza dell'individuo, può darsi che rimanga impressionato più dalla irrazionalità e casualità di certe sue manifestazioni inconsce che dalla razionalità delle sue intenzioni e motivazioni consce. Pertanto io fondo il mio giudizio su quella che l'individuo sente come sua psicologia conscia, anche se ammetto che tale psicologia può essere concepita anche nel senso opposto. Inoltre sono convinto che se io stesso possedessi un'altra psicologia individuale, partendo dall'inconscio descriverei come irrazionali i tipi razionali. Ciò rende molto difficile rappresentare e capire le situazioni psicologiche e aumenta enormemente le possibilità di fraintendimenti. Le discussioni che nascono da questi fraintendimenti sono senza via d'uscita perché ognuno resta della propria idea. Questa esperienza è stata una delle ragioni che mi hanno indotto a basarmi nella mia rappresentazione sulla psicologia soggettivamente conscia dell'individuo, perché così facendo si ha quanto meno un punto di riferimento oggettivo, che manca del tutto qualora si voglia fondare sull'inconscio una regolarità psicologica. In questo caso infatti l'oggetto, poiché non sa nulla del proprio inconscio, non avrebbe più voce in capitolo. Per cui il giudizio viene affidato all'osservatore, al soggetto, che si baserà sicuramente sulla propria psicologia individuale e la imporrà all'osservato. Secondo me questo avviene sia nella psicologia di Freud che in quella di Adler. L'individuo è totalmente alla mercé del beneplacito dell'osservatore giudicante. Mentre questo non può succedere se viene presa come base la psicologia conscia dell'osservato, in quanto in questo caso è lui il competente, perché solo lui conosce i propri motivi consci. La razionalità del tenore di vita conscio di questi due tipi significa una consapevole esclusione del casuale e dell'irrazionale. In questa psicologia il giudizio razionale rappresenta una potenza che fa o cerca di far forzatamente rientrare in determinate forme il non-ordinato e il casuale. Così da un lato tra le possibilità di vita si fa una precisa scelta ammettendo consciamente solo il razionale, dall'altro si limitano fortemente l'autonomia e l'influsso delle funzioni psichiche che presiedono alla percezione del dato oggettivo. Questa limitazione delle funzioni sensoriale e intuizionale naturalmente non è assoluta. Queste funzioni continuano ad esistere, però sottopongono i loro prodotti alla scelta del giudizio razionale. Per la motivazione dell'azione è determinante non la forza assoluta della sensazione, ma il giudizio. Perciò in un certo senso le funzioni percepenti condividono la propria sorte nel primo caso con l'affettività, nel secondo col pensiero. Sono relativamente rimosse e quindi meno differenziate. Questo fatto conferisce all'inconscio dei nostri due tipi un'impronta sui generis: ciò che la gente fa consapevolmente e intenzionalmente è razionale (conforme alla «sua» ratio!); ciò che le «succede» corrisponde da un lato alla natura delle sensazioni primitivo-infantili, dall'altro a intuizioni ugualmente primitivo-infantili. Cercherò di spiegare cosa si deve intendere con questi concetti nei capitoli seguenti. In ogni caso per questi due tipi è irrazionale (naturalmente dal loro punto di vista!) ciò che «succede». Ora, poiché moltissime persone vivono più di ciò che loro «capita» che di ciò che fanno di deliberato proposito (con intenzione razionale), può darsi che un osservatore di questa specie dopo un'analisi accurata definisca irrazionali tutti e due i nostri tipi. Dobbiamo ammettere con lui che molto spesso l'inconscio di un uomo fa un'impressione molto maggiore del suo conscio e che le sue azioni hanno un peso molto maggiore delle sue motivazioni razionali. In entrambi questi tipi la razionalità è orientata verso l'oggetto, è dipendente dal dato oggettivo. La loro razionalità scaturisce da ciò che la collettività considera razionale. Soggettivamente essi considerano razionale soltanto ciò che la collettività ritiene razionale. Però anche la ragione è per buona parte soggettiva e individuale. Nel nostro caso questa parte è rimossa, e lo è tanto più quanto maggiore è l'importanza dell'oggetto. Quindi il soggetto e la ratio soggettiva sono sempre minacciati di rimozione, e se vengono rimossi finiscono in balìa dell'inconscio, che in questo caso possiede qualità molto negative. Del loro pensiero abbiamo già parlato. A ciò si aggiungono: 1. sensazioni primitive, che si manifestano (in mille modi) come una costrizione da parte dei sensi, per esempio sotto forma di un abnorme irrefrenabile edonismo che può assumere gli aspetti più disparati; 2. intuizioni primitive che possono diventare tormentose per il soggetto e per chi gli sta vicino. Viene riesumato e insinuato tutto ciò che di sgradevole, penoso, ostile, brutto o cattivo esiste, e per lo più si tratta di mezze verità, che per loro natura creano malintesi velenosi più di qualsiasi altra cosa. Il forte influenzamento da parte dei contrastanti contenuti dell'inconscio porta necessariamente alla frequente infrazione delle regole della ratio conscia, cioè a uno strano legame con gli eventi casuali, che o per la loro forza sensoriale o per il loro significato inconscio arrivano a esercitare un influsso coartante. La funzione sensoriale - Nell'atteggiamento estroverso la funzione sensoriale è condizionata prevalentemente dall'oggetto. In quanto percezione sensoriale la sensorialità (funzione sensoriale) ovviamente dipende dall'oggetto. Però, altrettanto ovviamente, dipende anche dal soggetto. Perciò esiste anche una sensorialità soggettiva, che è per sua natura completamente diversa da quella oggettiva. Nell'atteggiamento estroverso la componente soggettiva della sensorialità, se tenta di imporsi, viene inibita o rimossa. Ma la sensorialità viene relativamente rimossa anche come funzione irrazionale, quando prevalgono il pensiero o l'affettività; cioè funziona consciamente solo nella misura in cui l'atteggiamento conscio, giudicante, consente alle percezioni occasionali di diventare contenuti della coscienza, cioè le comprende. Naturalmente la funzione sensoriale sensu strictiorì è assoluta; tutto, purché fisiologicamente sia possibile, viene visto e udito, però non tutto raggiunge quel valore liminare che una percezione deve avere per essere appercepita. La situazione cambia quando ha il primato unicamente la funzione sensoriale. In questo caso nulla viene escluso e rimosso dalla sensazione oggettiva (salvo la componente soggettiva, come già menzionato). La funzione sensoriale è determinata sostanzialmente dall'oggetto, e per la psicologia dell'individuo sono determinanti gli oggetti che provocano le sensazioni più forti. Quindi nasce un ancoramento agli oggetti che è espressamente sensoriale. Di conseguenza la sensorialità è una funzione vitale che è dotata della pulsione vitale più forte in assoluto. Gli oggetti hanno valore e per giunta vengono totalmente accolti nella coscienza, sia che concordino sia che non concordino col giudizio razionale, in quanto producono sensazioni. Il criterio in base al quale vengono valutati è unicamente la intensità della sensazione, condizionata dalle loro qualità oggettive. Pertanto entrano a far parte della coscienza tutti gli eventi oggettivi in quanto provocano sensazioni. Ma nell'atteggiamento estroverso provocano sensazioni solo gli eventi o oggetti concreti, percepibili dai sensi, e precisamente solo quelli che ognuno avverte come concreti sempre e ovunque. Perciò l'individuo viene orientato verso una realtà meramente sensoriale. Le funzioni giudicanti sono subordinate al fatto concreto della sensazione e quindi hanno le caratteristiche delle funzioni meno differenziate, cioè possiedono una certa negatività con tratti arcaico-infantili. Naturalmente la funzione maggiormente rimossa è quella che contrasta maggiormente con la sensazione, cioè l'intuito, la percezione inconscia. Il tipo sensoriale estroverso - Non esiste fra gli uomini un tipo più realista del tipo sensoriale estroverso. Il suo senso della realtà oggettiva è straordinariamente sviluppato. Nella sua vita accumula esperienze reali sull'oggetto concreto; e più questo tipo è pronunciato, meno esso fa uso della propria esperienza. In certi casi ciò che sperimenta non diventa quella che comunemente si definisce «esperienza». Ciò che avverte (percepisce) gli serve al massimo da «indicatore» per altre percezioni (sensazioni), e tutto il nuovo che entra nella sfera dei suoi interessi viene acquisito attraverso la sensazione e deve servire a questo scopo. Poiché si tende a considerare molto razionale lo spiccato senso della mera realtà, questi individui sono considerati razionali. Invece non lo sono, in quanto sono soggetti tanto alla percezione del caso irrazionale, quanto a quella dell'evento razionale. Un tipo siffatto - si tratta spesso di maschi - ovviamente non pensa di essere «succubo» della sensazione. Anzi riterrà risibile tale definizione, perché secondo lui la sensazione è espressione concreta della vita, secondo lui essa significa pienezza di vita reale. La sua intenzione punta al godimento concreto, e altrettanto la sua moralità. Infatti il vero edonismo ha una sua particolare morale, una sua particolare moderatezza, leggi proprie e una propria «devozione». Questo tipo non è necessariamente un materialone rozzo e sensuale; sa differenziare la sua sensorialità fino a raggiungere la massima purezza estetica senza mai essere infedele, nemmeno nel caso della sensazione più astratta, al suo principio della sensazione oggettiva. Il Cicerone di Wulfen, la guida per il godimento più libero, è l'autoconfessione più aperta di un tipo siffatto. Sotto questo aspetto vale la pena leggere questo libro. A un livello meno alto questo tipo è l'uomo della realtà che si tocca con mano: non è portato alla riflessione e non nasconde intenti prevaricatori. Suo costante motivo è: percepire l'oggetto, avere sensazioni e possibilmente godere. Non è una persona sgradevole, ma allegra e piena di vita. Può essere un compagno di bagordi, come pure un esteta. Nel primo caso i grandi problemi della vita dipendono da un pasto più o meno soddisfacente, nel secondo appartengono al buon gusto. Per lui è essenziale sentire. Ammette «ipotesi» a margine, o al di là del sentire, solo se rafforzano la sensazione. Non che debbano renderla più piacevole, perché questo tipo non è un comune gaudente; solo vuole che la sensazione, che per sua natura egli non può ricevere che dall'esterno, sia più forte possibile. Poiché pensa e sente su basi oggettive e riporta ogni cosa a basi oggettive, cioè ad influssi provenienti dall'oggetto, per lui, a dispetto della logica più ferrea, ciò che proviene dall'interno è abnorme e da respingere. In ogni circostanza gli dà l'ossigeno di cui abbisogna la realtà che si tocca con mano. Da questo punto di vista è sorprendentemente sprovveduto. Secondo lui un sintomo psicogeno dipende dalle condizioni meteorologiche, dalla bassa pressione atmosferica, mentre l'esistenza di un conflitto psichico è abnorme fantasticheria. Il suo amore poggia senza alcun dubbio sugli stimoli dell'oggetto che colpiscono i sensi. Essendo normale si conforma alla realtà data, e lo fa vistosamente. Il suo ideale, un ideale dal quale non demorde, è la concretezza. Non avendo ideali intellettivi, non ha motivo di comportarsi in modo difforme dalla realtà concreta. Portano questo marchio tutte le sue manifestazioni. Veste bene, in modo corrispondente alla propria posizione; a casa sua si mangia e si beve bene e si vive comodamente; è evidente quanto meno che i suoi gusti raffinati esigono un ambiente adeguato. E’ convinto addirittura che per amore dello stile sono opportuni determinati sacrifici. Però più la sensazione prende il sopravvento, fino a far scomparire il soggetto percepente, più questo tipo diventa sgradevole: diventa un rozzo crapulone o un raffinato esteta che non conosce scrupoli. Quindi l'oggetto, più gli diventa indispensabile, più perde valore fino a diventare una cosa che esiste e basta; viene violentato e «ricattato», in quanto viene usato solo come suscitatore di sensazioni; finché l'ancoramento all'oggetto diventa intollerabile. A questo punto l'inconscio assume un ruolo compensatorio entrando in aperta opposizione. Si affermano, sottoforma di proiezioni sull'oggetto, anzitutto le intuizioni rimosse. Nascono le congetture più avventurose. Se si stratta di un oggetto sessuale hanno un grosso ruolo sia le fantasie ispirate dalla gelosia sia gli stati d'angoscia. Nei casi più gravi si sviluppano fobie di ogni genere, e in particolare i sintomi della psicosi ossessiva. I contenuti patologici, spesso di natura morale e religiosa, hanno una forte impronta di irrealtà. Si sviluppano spesso una cavillosità da Azzeccagarbugli, una moralità intransigente fino al ridicolo e una religiosità primitiva, che si rifà a riti astrusi, in cui dominano la superstizione e la «magia». Tutti questi fenomeni traggono origine da funzioni rimosse, ipodifferenziate, che si contrappongono con durezza alla coscienza e si manifestano in modi così bizzarri da apparire poggianti su presupposti assurdi, in stridente contrasto col senso conscio della realtà. In questa nuova personalità sembra essersi tramutata in patologica primitività l'intera cultura del sentire e del pensare: la ragione è cavillosità, la morale è arido moraleggiamento e palese fariseismo, la religione è superstizione, la capacità di presentire, dote peculiare dell'uomo, è almanacchio fantasticante, inconsulta intromissione negli affari altrui. E tale condotta si fa sempre più gretta fino a diventare inumana meschinità. Il carattere specificamente coartante dei sintomi nevrotici rappresenta il contraltare inconscio dell'assenza conscia di inibizioni morali di un atteggiamento meramente sensoriale che dal punto di vista del giudizio razionale accoglie il dato oggettivo acriticamente. Benché l'assenza di intenzionalità del tipo sensoriale non significhi affatto assenza assoluta di regole e limiti, in esso la limitazione, comunque indispensabile, imposta dal giudizio, scompare. Ma il giudizio razionale rappresenta una costrizione conscia che il tipo razionale si impone volontariamente. Questa costrizione nel tipo sensoriale si impone partendo dall'inconscio. Inoltre l'ancoramento all'oggetto del tipo razionale, proprio per l'esistenza di un giudizio, non è mai forte quanto il rapporto che lega all'oggetto il tipo sensoriale. Perciò quando il suo atteggiamento diventa abnormemente unilaterale il tipo razionale, così come è consciamente vincolato all'oggetto, corre il rischio di essere nella stessa misura catturato dall'inconscio. Perciò quando è diventato nevrotico trattarlo cercando di farlo ragionare è molto più diffìcile, perché il medico si appella a funzioni sulle quali può contare poco o niente perché sono relativamente indifferenziate. Per renderlo consapevole di qualcosa è necessario spesso ricorrere a pressioni affettive. L'intuito - Nell'atteggiamento estroverso l'intuito, o funzione intuizionale o percezione inconscia, è volto totalmente verso oggetti esterni. L'intuizione è un processo prevalentemente inconscio, per cui è molto difficile comprenderne la natura. Nella coscienza la funzione intuizionale è rappresentata da una sorta di atteggiamento di attesa che fiuta e subodora; ed è possibile stabilire quanta parte della intuizione spetta al soggetto (è stata presentita) e quanta all'oggetto, solo a posteriori, solo dal risultato. Come la sensazione, quando ha il primato, non è soltanto un processo reattivo, non altrimenti importante per l'oggetto, ma una actio che prende l'oggetto e lo configura, così l'intuito non è pura e semplice percezione ma un processo attivo, creativo, che tanto immette nell'oggetto quanto da esso prende. Come inconsciamente ne ricava un concetto così carica l'oggetto di un influsso inconscio. Ma all'inizio l'intuito comunica solo immagini o concezioni di rapporti e situazioni che altre funzioni non colgono, o se lo fanno, lo fanno per vie traverse. Queste immagini equivalgono a nozioni, a conoscenze, che quando l'intuito è la funzione prevalente influenzano l'azione in misura determinante. In tal caso l'adattamento psichico è dovuto quasi esclusivamente a intuizioni. Le funzioni intellettiva, affettiva e sensoriale sono relativamente rimosse, e la più colpita è quella sensoriale perché, essendo conscia, è quella che ostacola maggiormente l'intuito. La sensazione disturba la visione (concezione) pura, esente da pregiudizi, mediante importuni stimoli che dirigono lo sguardo su superfici fisiche, cioè proprio sulle cose dietro le quali l'intuito cerca di arrivare. Ora, nell'atteggiamento estroverso l'intuito, poiché guarda agli oggetti, è vicinissimo alla sensazione, in quanto anche l'atteggiamento di attesa, essendo rivolto agli oggetti esterni, può servirsi con la stessa verosimiglianza della sensazione. Ma affinché l'intuito possa agire, la sensazione deve venire fortemente repressa. In questo caso per sensazione intendo la semplice e diretta percezione sensoriale quale dato fisiologico e psichico nettamente delimitato. Questo va stabilito espressamente a priori; infatti quando chiedo all'intuito quale sia il suo orientamento, esso mi descrive fenomeni che sono identici alle percezioni sensoriali. Qualche volta userà perfino il termine «sensazione». In effetti esso ha sensazioni, però non si orienta partendo da esse, bensì le usa come punti d'appiglio per la intuizione. Esse vengono selezionate da presupposti inconsci. Raggiunge la massima importanza non la sensazione fisiologicamente più forte ma un'altra qualsiasi sensazione, della quale l'atteggiamento inconscio dell'intuitivo accresce fortemente il valore. Per cui finisce per diventare la più importante e accede alla coscienza dell'intuitivo come se fosse una mera sensazione, mentre in realtà non lo è. Nell'atteggiamento estroverso come la sensazione mira a raggiungere la massima intensità, perché così comunica l'apparenza di un vita piena, così l'intuizione mira a cogliere il massimo numero di possibilità, perché è la visione delle possibilità che soddisfa al massimo l'intuito. L'intuito mira a scoprire le possibilità nel dato oggettivo, perciò aiuta le altre funzioni anche quando non è la funzione prevalente. Quando è la funzione prevalente le situazioni della vita appaiono come spazi chiusi che l'intuito deve aprire. Per l'atteggiamento intuizionale ogni situazione della vita diventa in brevissimo tempo una prigione, una opprimente catena che gli impone di trovare una soluzione. Talvolta, e in particolare quando debbono servire a trovare una soluzione, a scoprire una nuova possibilità, gli oggetti sembrano dotati di un'importanza enorme. Ma appena hanno assolto la loro funzione di gradino o di ponte perdono totalmente il loro valore e vengono cancellati come appendici moleste. Un fatto ha valore solo finché apre nuove possibilità che al di là di esso liberano l'individuo dall'oggetto. Le possibilità che emergono sono motivi coartanti cui l'intuito non può sfuggire e al quale sacrifica ogni altra cosa. Il tipo intuitivo estroverso - Dove l'intuito è la funzione prevalente esiste una psicologia sui generis che è necessario conoscere. Poiché l'intuito si orienta verso l'oggetto esiste una marcata dipendenza dalle situazioni esterne, tuttavia è una dipendenza completamente diversa da quella del tipo sensoriale. L'intuitivo non si trova mai dove esistono valori reali generalmente riconosciuti, ma sempre dove esistono possibilità. Possiede un fiuto particolare per le situazioni in fieri, in corso di sviluppo e promettenti. Non si trova mai in situazioni stabili, solidamente fondate, esistenti da tempo e il cui valore è generalmente riconosciuto, ma in quelle di valore limitato. Poiché è perennemente alla ricerca di nuove possibilità, nelle situazioni stabili si sente soffocare. Individua nuovi oggetti e nuove vie con grande impegno e con un entusiasmo qualche volta straordinario, per abbandonarli con la massima indifferenza, apparentemente cancellandoli dalla mente, appena ne ha constatata l'importanza e non servono più al suo intuito. Finché esiste una possibilità l'intuitivo si ancora ad essa con tutte le sue forze. Ha l'impressione di aver raggiunto il punto cruciale della sua vita, e di non poter più pensare e sentire nient'altro. Anche se fosse più che opportuno e più che ragionevole fermarsi, anche se tutte le argomentazioni gli dimostrassero che gli conviene fermarsi, nulla gli impedirà alla prima occasione di considerare coartante una situazione che poco prima gli sembrava offrirgli ogni possibilità. Né la ragione né il sentimento hanno il potere di trattenerlo e di dissuaderlo dal cercare una nuova possibilità, anche se questa talvolta è in antitesi con le sue convinzioni precedenti. Pensiero e sentimento, indispensabili componenti del convincimento, sono per lui funzioni scarsamente differenziate, non determinanti, incapaci di tener testa all'intuito. Tuttavia queste funzioni sono le sole in grado di compensare efficacemente il prevalere dell'intuito, in quanto forniscono all'intuitivo il giudizio, che in lui manca del tutto. La moralità dell'intuitivo non è né intellettiva né affettiva. L'intuito ha una morale tutta sua che impone all'intuitivo di essere fedele ai propri princìpi e di subordinarsi ad essi. L'interesse per il benessere delle persone che lo circondano è scarso. Per l'intuitivo contano poco sia il benessere fisico proprio che quello degli altri. Allo stesso modo ha scarsa considerazione per le convinzioni e le abitudini di vita degli altri, per cui non di rado è considerato immorale e spregiudicato. Poiché si occupa di oggetti esterni e va a caccia di possibilità esterne, il suo intuito rivolge l'attenzione ai mestieri o professioni in cui poter sviluppare le proprie capacità nel modo più multilaterale possibile. Appartengono a questo tipo psicologico molti commercianti, imprenditori, speculatori, spie, politici ecc. Più ancora che fra gli uomini questo tipo sembra frequente fra le donne, nelle quali l'attività intuizionale si manifesta più sul piano sociale che su quello professionale. Queste donne sanno sfruttare tutte le possibilità per allacciare rapporti sociali, per scovare uomini utili ai loro scopi, che però abbandonano del tutto appena intravve-dono una nuova possibilità. Un tipo siffatto ovviamente è importantissimo sia come operatore politico-economico, sia come promotore di cultura. Se ha un buon carattere, cioè se non è egoista, può farsi onore come iniziatore o, quanto meno, promotore di ogni genere di imprese. E’ un difensore naturale di tutte le «minoranze» promettenti, che hanno un futuro. Poiché quando è orientato più verso gli uomini che verso le cose grazie al suo intuito sa scoprire capacità e possibilità, è capace di «creare personaggi». Nessuno più di lui sa infondere nel prossimo coraggio ed entusiasmo per una nuova causa, anche se egli stesso dopo non molto la abbandonerà. Più forte è il suo intuito, più il soggetto si àncora alla possibilità intravista. Le dà vita, la presenta con grande calore, in modo convincente, in qualche modo la incarna. Non perché intenda «plagiare», ma perché lo incalza una forza cui non riesce ad opporsi. Questo atteggiamento comporta notevoli rischi perché l'intuitivo è un dispersivo, perché si comporta con leggerezzza, trascura la propria vita per dar vita a persone e cose e per diffondere intorno a sé pulsioni vitali da cui traggono vantaggio gli altri. Se fosse capace di fermarsi, raccoglierebbe lui i frutti del suo lavoro; invece dopo non molto non può fare a meno di inseguire altre possibilità e di abbandonare il campo appena coltivato, che altri mieteranno. Per cui alla fine resta a mani vuote. Ma quando arriva a questo punto l'intuitivo ha già contro di sé anche il proprio inconscio. L'inconscio dell'intuitivo assomiglia a quello del tipo sensoriale. Le funzioni intellettiva e affettiva, relativamente rimosse, sviluppano nell'inconscio pensieri e sentimenti arcaico-infantili paragonabili a quelli del tipo opposto. Anche questi si manifestano sotto forma di forti proiezioni e sono assurdi quanto quelli del tipo sensoriale, però, secondo me, non hanno l'impronta di misticismo che caratterizza questi ultimi; riguardano per lo più cose concrete, quasi reali, sono premonizioni che hanno a che fare col sesso, le finanze, lo stato di salute. Questa diversità sarebbe attribuibile a sensazioni reali, che sono state rimosse e che possono manifestarsi anche rendendo l'intuitivo improvvisamente schiavo della donna a lui meno adatta - o, se si tratta di una donna, dell'uomo più sbagliato per lei - nel caso queste persone abbiano toccato la sfera dei sentimenti arcaici. Ne deriva un inconscio ancoramento a un oggetto sicuramente privo di prospettive. Tale evenienza è già un sintomo di una psiconevrosi ossessiva, caratteristica anche di questo tipo. L'intuitivo estroverso anela alla stessa libertà e indipendenza cui anela il tipo sensoriale; infatti subordina le sue decisioni non al giudizio razionale ma unicamente alla percezione di possibilità fortuite. Si affranca dalle limitazioni imposte dalla ragione e così cade nella nevrosi, finisce alla mercé della falsa razionalità, dell'arrovellamento e del forzato legame alla percezione dell'oggetto. Nella coscienza tratta la sensazione e l'oggetto percepito con sufficienza e supponenza, però non perché pensi di essere superiore, ma semplicemente perché non vede l'oggetto che ognuno può vedere, «gli passa sopra», lo sorvola, come il tipo sensoriale, con la sola differenza che quest'ultimo non vede l'anima dell'oggetto. Per cui l'oggetto si vendica sviluppando idee ossessive, fobie ipocondriache e tutte le più assurde sensazioni fisiche. Riepilogo dei tipi irrazionali - Definisco irrazionali i due tipi precedenti perché, come ho già spiegato, essi fondano le loro azioni e non-azioni non su giudizi razionali ma sulla forza assoluta della percezione. La loro percezione è rivolta al dato puramente oggettivo che non sottostà ad alcuna scelta da parte del giudizio. Da questo punto di vista questi ultimi due tipi hanno una notevole superiorità sui primi due, sui tipi giudicanti. Il dato oggettivo è conforme alla norma (regolare) e occasionale. In quanto conforme alla norma è accessibile alla ragione, in quanto occasionale no. Però potremmo anche dire che nel dato oggettivo noi definiamo conforme alla norma ciò che appare tale alla nostra ragione e occasionale ciò che ad essa non appare conforme alla norma. Il postulato di una universale conformità alla norma (regolarità) rimane un postulato unicamente della nostra ragione, non delle nostre funzioni percettive. Le funzioni percettive, poiché non poggiano assolutamente sul principio della ragione e del suo postulato, sono irrazionali per la loro natura. Perciò io definisco irrazionali anche i tipi sensoriali per la loro natura. Mentre sarebbe sbagliato considerarli «irrazionali» perché subordinano il giudizio alla percezione. Questi tipi sono solo fortemente empirici; si basano esclusivamente sull'esperienza, al punto che il loro giudizio per lo più non riesce ad andare al passo con la loro esperienza. Le loro funzioni giudicanti sono presenti, però conducono un'esistenza in gran parte inconscia. L'inconscio, pur essendo separato dal soggetto conscio, si palesa di continuo. Anche nella vita dei tipi irrazionali si registrano giudizi e scelte, che sorprendono perché hanno l'aspetto di ragionamenti balzani, di giudizi spietati e scelte calcolate di persone e situazioni. Questi tratti hanno un'impronta infantile e anche primitiva. Qualche volta sono sorprendentemente ingenui, qualche volta anche irrispettosi, grossolani e violenti. A chi ha un atteggiamento razionale questi individui per il loro carattere potrebbero sembrare razionalisti e calcolatori. Però questo giudizio sarebbe giusto solo per il loro inconscio, non per la loro psicologia conscia, che essendo totalmente volta alla percezione e quindi per sua natura irrazionale, si sottrae del tutto a un giudizio razionale. A chi ha un atteggiamento razionale può sembrare infine che tale accumulo di casualità non meriti il nome di «psicologia». L'irrazionale rende la pariglia al razionale definendolo a sua volta un essere che vive per metà, per il quale l'unico scopo nella vita consiste nel mettere a ogni vivente le catene della ragione e il guinzaglio dei giudizi. Questi, naturalmente, sono casi estremi, però esistono. Dal giudizio del razionale l'irrazionale potrebbe facilmente essere rappresentato come un razionale di qualità inferiore, se viene valutato da ciò che gli succede. Al razionale il casuale non capita - in questo è maestro -, le cose che toccano a lui sono il giudizio razionale e l'intenzione razionale. Per il razionale il casuale è inimmaginabile, una cosa la cui inimmaginabilità è pari solo allo stupore dell'irrazionale che abbia scoperto che qualcuno pone le idee razionali al di sopra del dato oggettivo, vivo e reale. A lui una cosa del genere appare incredibile. Di solito è già senza speranza tentare di confrontarlo con qualcosa che sappia di principio in questo senso, perché una spiegazione razionale gli è sconosciuta, anzi gli ripugna, allo stesso modo in cui per il razionale è impensabile che si possa stipulare un contratto senza che le parti si siano prima scambiate le loro idee e si siano reciprocamente impegnate. Questo punto mi porta al problema della relazione psichica che collega i rappresentanti dei diversi tipi. La psichiatria moderna, attingendo al linguaggio della scuola di ipnosi francese, definisce la relazione psichica «rapport». Il «rapport» consiste essenzialmente nel senso di concordanza che fra essi esiste nonostante la riconosciuta diversità. Persino il riconoscimento di diversità esistenti, se è comune, è un senso di concordanza, un «rapport». Se esaminiamo più da vicino questo senso del caso che si verifica, se ne prendiamo maggiormente coscienza, scopriamo che si tratta non solo di un «senso», di un sentimento non meglio definibile, ma anche di un concetto, o di un contenuto conoscitivo che rappresenta il punto di concordanza in forma intellettiva. Ora questa rappresentazione razionale vale esclusivamente per il razionale, non certo per l'irrazionale, perché il suo «rapport» non si basa affatto sul giudizio ma sul parallelismo di ciò che avviene, del dato oggettivo vivente in generale. Il suo senso di concordanza è la comune percezione di una sensazione o di un'intuizione. Il razionale direbbe che il «rapport» con l'irrazionale poggia su mera casualità. Quando le situazioni oggettive per caso concordano, si instaurerebbe una sorta di rapporto umano, però nessuno saprebbe dire quanto valga e quando duri. Per il razionale è perfino doloroso pensare che il rapporto dura finché le circostanze esterne presentano per caso elementi comuni. Non gli sembra proprio dell'uomo. Invece l’irrazionale lo considera particolarmente proprio dell'uomo. Il risultato è che l'uno considera l'altro «privo di rapport», un individuo sul quale è impossibile fare affidamento, col quale è impossibile andare d'accordo. Però si arriva a questo risultato solo quando si cerca di approfondire (con la coscienza) questo tipo di rapporto coi propri simili. Ma tale operazione psicologica è tutt'altro che frequente, per cui succede invece che, nonostante l'assoluta diversità dei punti di vista, si instauri il seguente tipo di rapporto: l'uno con tacita proiezione presuppone che l'altro abbia la sua stessa opinione sui punti principali, mentre l'altro pre-sente (suppone) o sente una comunanza oggettiva, che tuttavia la coscienza del primo non percepisce e della quale constaterebbe la presenza se l'altro non pensasse che il suo «rapporto» dovrebbe basarsi su una comune opinione. Il «rapporto» più frequente è quello che poggia su una proiezione che poi diventa fonte di malintesi. Nell'atteggiamento estroverso il «rapporto» psichico poggia sempre su fattori oggettivi, su condizioni esterne. Ciò che uno è dentro non ha mai un valore determinante. Per la nostra attuale cultura per il problema del rapporto umano è determinante l'atteggiamento estroverso. Naturalmente il principio dell'introversione esiste, però l'introversione è considerata una eccezione che si appella alla tolleranza dell'altro. 3. Il tipo introversoa. L'atteggiamento generale della coscienza Come ho fatto presente nell'introduzione a questo capitolo, il tipo introverso si differenzia da quello estroverso per il fatto che mentre quest'ultimo è orientato prevalentemente verso l'oggetto e il dato oggettivo, il primo si orienta prevalentemente verso fattori soggettivi. Nell'introduzione ho detto anche che nell'introverso tra la percezione dell'oggetto e la propria azione si frappone una opinione soggettiva che impedisce alle azioni di assumere un carattere corrispondente al dato oggettivo. Questo naturalmente è un caso speciale, che ho citato solo per spiegare meglio il concetto. Qui - va da sé - dobbiamo cercare e trovare formulazioni più generali. La coscienza introvertita guarda alle condizioni esterne, però per essa è decisiva la determinante soggettiva. Perciò il tipo introverso è orientato verso il fattore «percezione e conoscenza», che rappresenta la disposizione soggettiva ad accogliere lo stimolo sensoriale. Per esempio, due persone vedono lo stesso oggetto, però non lo vedono mai in modo che le due immagini che ne ricavano siano assolutamente identiche. A parte la diversa acutezza visiva degli organi dei sensi e la «equazione» personale, spesso è profondamente diversa, come modo e come misura, la assimilazione psichica dell'immagine percepita. Mentre il tipo estroverso si rapporta sempre prevalentemente a ciò che gli arriva dall'oggetto, l'introverso si rapporta sempre prevalentemente all'effetto prodotto sul soggetto dall'impressione esterna. Nel caso di una sola appercezione la differenza, naturalmente, può essere molto tenue, però nell'insieme dell'economia psicologica essa si evidenzia con fortissima misura, e precisamente sotto forma di un diritto riservato all'Io. Va detto subito che io per principio considero fuorviante e svalutante il punto di vista che, con Weininger, vorrebbe definire questo atteggiamento «filautico» o autoerotico o egocentrico o soggettivistico o egoistico. Corrisponde al pregiudizio dell'atteggiamento estroverso circa la natura dell'introverso. Non dobbiamo mai dimenticare - sebbene il punto di vista estroverso lo dimentichi troppo spesso - che ogni attività percettiva e conoscitiva è condizionata non solo dall'oggetto ma anche dal soggetto. Il mondo non è solo come è, ma è anche come lo vedo io. Per meglio dire non esiste un criterio che ci aiuta a giudicare il mondo che non sia assimilabile al soggetto. Trascurare, ignorare il fattore soggettivo significherebbe mentire, negare che dubitiamo che sia possibile raggiungere la conoscenza assoluta. Se lo facessimo imboccheremmo la via del vuoto e insulso positivismo che ha imperversato all'inizio del nostro secolo, e peccheremmo di immodestia, di quell'immodestia mentale che è l'anticamera della durezza affettiva e della prepotente e ottusa presunzione. Sopravvalutando la capacità di conoscenza oggettiva rimuoviamo l'importanza del fattore soggettivo, cioè il valore del soggetto. Ma cosa è il soggetto? Il soggetto è l'uomo, il soggetto siamo noi. Dimenticare che la conoscenza ha un soggetto, che non esiste una conoscenza e non esiste un mondo se non esiste chi dice «io conosco», parole con le quali esso comunque definisce molto esplicitamente la soggettiva limitatezza di ogni conoscenza, è da folli. Lo stesso discorso vale per tutte le funzioni psichiche. Tutte le funzioni psichiche hanno un soggetto, che è indispensabile quanto l'oggetto. Tipico della nostra attuale valutazione estroversa è il fatto che il termine «soggettivo» suona talora come una sorta di biasimo; in tutti i casi l'espressione «meramente soggettivo» è equiparabile a un'arma pericolosa che può colpire chi non è convinto della incondizionata superiorità dell'oggetto. Quindi è necessario avere le idee chiare su ciò che in questa disamina si intende per «soggettivo». Io definisco fattore soggettivo quell'azione o reazione psicologica che si fonde all'intervento dell'oggetto per dar luogo a una situazione psichica nuova. Ora il fattore soggettivo, rimanendo identico a se stesso in fortissima misura fin dai tempi più remoti e presso tutti i popoli della Terra - tanto che le percezioni e le conoscenze elementari sono uguali in tutti i luoghi e in tutti i tempi -, è una realtà le cui basi sono solide quanto quelle dell'oggetto esterno. Se non fosse tale non si potrebbe parlare infatti di una realtà duratura e sostanzialmente uguale a se stessa, e non si spiegherebbero le tradizioni. Ecco perché il fattore soggettivo è un dato irrinunciabile come l'espansione del mare e il raggio della Terra. Ecco perché anche al fattore soggettivo dev'essere riconosciuta la dignità di grandezza determinante, una grandezza che è indispensabile computare. Il fattore soggettivo è l'altra legge universale, e chi poggia su di essa poggia sulla stessa sicurezza, durata e validità su cui poggia chi si appella all'oggetto. Ma come l'oggetto (e il dato oggettivo) non rimane sempre uguale a se stesso, in quanto soggiace a caducità e casualità, così il fattore soggettivo sottostà alla variabilità e casualità individuali. Quindi anch'esso ha un valore soltanto relativo. L'eccessivo sviluppo nella coscienza del punto di vista introverso porta pertanto non a una migliore utilizzazione del fattore soggettivo, ma a una innaturale soggettivizzazione della coscienza, che va senz'altro stigmatizzata in quanto «meramente soggettiva». Pertanto per desoggettivizzare la coscienza si produce un atteggiamento eccessivamente estroverso che merita la definizione di «misautico» datagli da Weininger. Poiché l'atteggiamento introverso poggia su una condizione, generalmente esistente, sommamente reale e assolutamente indispensabile, di adattamento psicologico, espressioni quali «filautico», «egocentrico» e simili non sono corrette e vanno respinte perché ingenerano il pregiudizio che si tratti sempre e unicamente dell'amato Io. Nulla è più fuorviante di un'idea del genere. Eppure, quando si esaminano i giudizi dell'estroverso sull'introverso, la si incontra spesso. Ritengo responsabile di questo errore non il singolo estroverso ma l'attuale modo estroverso di vedere le cose, generalmente accettato non solo dall'estroverso, ma anche dall'introverso che, scioccamente, si autodenigra. A quest'ultimo giustamente va mossa l'accusa di infedeltà al proprio modo di essere, mentre al primo quest'accusa non può essere mossa. Nel caso normale l'atteggiamento introverso si rivolge alla struttura della psiche, data per principio dall'eredità, che è una grandezza inerente al soggetto. Essa però non è affatto identificabile con l'Io del soggetto - come risulterebbe dalle definizioni menzionate - ma è la struttura della psiche che precede lo sviluppo dell'Io. Il soggetto, che giace sul fondo, cioè il Sé, è molto più esteso dell'Io, in quanto comprende anche l'inconscio, mentre l'Io è essenzialmente il punto centrale della coscienza. Se l'Io fosse identico al Sé non si capirebbe come mai nei sogni noi appariamo talvolta sotto forme e con significati totalmente diversi. Ora un tratto caratteristico dell'introverso è il fatto che, poiché segue la propria inclinazione ma al contempo soggiace al pregiudizio generale, scambia il proprio Io col proprio Sé; per cui eleva l'Io alla dignità di soggetto del processo psichico, cioè commette l'errore, sopra menzionato, di soggettivizzare abnormemente la propria coscienza, e quindi si estrania dall'oggetto. La struttura psichica corrisponde alla Mneme di Semon e a quello che io chiamo inconscio collettivo. Il Sé individuale è una parte, un settore o un rappresentante del modo di agire della psiche, esistente ovunque, in tutti gli esseri viventi e corrispondentemente graduato, che è innato anche in ogni indole. Fin da tempi remotissimi il modo d'agire è definito istinto. Il modo in cui la psiche coglie l'oggetto ho proposto di definirlo archetipo. Cosa si intende per istinto suppongo lo si sappia. Per quanto riguarda gli archetipi devo spiegare di cosa si tratta. Io per archetipo intendo la stessa cosa che Jacob Burckhardt chiama «immagine primordiale». L'archetipo è una formula simbolica che entra in funzione ovunque non esistano ancora o, per ragioni interne o esterne, non possono esistere concetti consci. Nella coscienza i contenuti dell'inconscio collettivo si rappresentano espressamente come tendenze o concezioni. L'individuo di norma li concepisce come condizionati dall'oggetto, però in fondo commette un errore, in quanto essi provengono dalla struttura inconscia della psiche e l'azione dell'oggetto non fa che liberarli. Queste tendenze e concezioni soggettive sono più forti dell'influsso dell'oggetto, hanno un valore psichico maggiore, per cui si sovrappongono a tutte le impressioni. Come per l'introverso è incomprensibile che possa essere determinante sempre l'oggetto, così per l'estroverso è incomprensibile che un punto di vista soggettivo possa essere superiore alla situazione oggettiva. E arriva inevitabilmente a supporre che l'introverso sia un egoista o un fanatico dottrinario. Recentemente si è ipotizzato che l'introverso subisca l'influsso di un inconscio complesso di potenza. E l'introverso alimenta tale pregiudizio dell'estroverso, perché col suo modo di esprimersi risoluto e fortemente generalizzante sembra voler escludere a priori ogni altra opinione. Inoltre può destare l'impressione di un marcato egocentrismo già la fermezza del giudizio soggettivo, che in realtà è sopraordinato al dato oggettivo a priori. Da questo pregiudizio l'introverso non sa difendersi con argomentazioni appropriate perché è completamente all'oscuro dei presupposti inconsci, ma universalmente validi, del proprio giudizio soggettivo e delle proprie percezioni soggettive. Corrispondentemente allo stile del tempo in cui viviamo cerca all'esterno, invece di esplorare la propria coscienza. Nel nevrotico ciò significa più o meno totale inconscia identità dell'Io col Sé, per cui il Sé perde completamente il suo valore, mentre l'Io «si gonfia» a dismisura. L'indubbia forza determinante del fattore soggettivo entra allora nell'Io, per cui si produce un egocentrismo enorme. Ogni psicologia che riduce la natura dell'uomo a inconscia pulsione di potenza deriva da questa disposizione. Molte delle cose che in Nietzsche non possiamo approvare debbono la loro esistenza alla soggettivizzazione della coscienza. b. L'atteggiamento dell'inconscio La superiorità del fattore soggettivo nella coscienza significherebbe una inferiorità del fattore oggettivo. All'oggetto non viene riconosciuta l'importanza che ha. Come nell'atteggiamento estroverso l'oggetto ha un ruolo troppo grande, così nell'atteggiamento introverso esso ha un ruolo troppo piccolo. A misura che la coscienza dell'introverso si soggettivizza e dà all'Io un'importanza che non ha, si crea una situazione che a lungo andare diventa insostenibile per l'oggetto. L'oggetto è una grandezza indubitabilmente forte, mentre l'Io è limitato e labile. Le cose cambiano se all'oggetto si contrappone il Sé. Sé e mondo sono grandezze che si equivalgono, perciò un atteggiamento introverso normale ha lo stesso diritto all'esistenza e la stessa validità di un atteggiamento estroverso normale. Ma siccome l'Io ha usurpato i diritti del soggetto, avviene, per compenso, un inconscio rafforzamento dell'influsso dell'oggetto. Cioè, nonostante lo sforzo talora spasmodico teso ad assicurare la superiorità dell'Io, l'oggetto (e il dato oggettivo) sviluppa influssi ultrapotenti ai quali l'individuo non riesce a sottrarsi, in particolare perché salendo dall'inconscio essi raggiungono la coscienza. Poiché fra l'Io e l'oggetto non esiste rapporto - la volontà di dominio non è adattamento - nella coscienza si instaura un rapporto compensatorio con l'oggetto che l'individuo sente come un ancoramento assoluto a quest'ultimo. Per cui l'Io, più cerca di assicurarsi tutte le possibili libertà e più vuol essere indipendente e superiore, più cade vittima del dato oggettivo. La libertà della mente diventa asservimento a una infamante dipendenza finanziaria, la libertà d'azione tosto o tardi viene pubblicamente umiliata, la superiorità morale si impantana in rapporti di basso conio, la volontà di dominio di tramuta in lacrimevole bisogno d'amore. E’ l'inconscio che provvede al rapporto con l'oggetto, e lo fa distruggendo l'illusione di forza e la fantasia di superiorità della coscienza. L'oggetto, malgrado la coscienza lo abbia umiliato, acquista dimensioni spaventose, per cui la separazione e il dominio dell'oggetto vengono perseguiti dall'Io ancora più violentemente. Alla fine l'Io si circonda di un vero e proprio sistema di sicurezze (descritto in modo egregio da E. Adler) che cercano di preservare quantomeno l'illusione della superiorità. Ma in questo modo l'introverso si separa definitivamente dall'oggetto e si logora, da un lato escogitando misure difensive, dall'altro macerandosi in inutili tentativi di imporsi all'oggetto. Questi tentativi vengono continuamente intralciati dalle prevaricanti impressioni che riceve dall'oggetto. A dispetto della sua volontà, l'oggetto gli si impone e senza dargli tregua suscita in lui i sentimenti più sgradevoli e persistenti, per resistere ai quali l'introverso è costretto a compiere un intenso lavorio interno. Ecco perché la nevrosi tipica dell'introverso è la psicoastenia, una malattia caratterizzata da un lato da marcata sensitività, dall'altro da grande esauribilità e da stanchezza cronica. Un'analisi dell'inconscio personale evidenzia una quantità di fantasie di potenza, cui si accompagna la paura nei confronti degli oggetti, cui l'individuo attribuisce un grande potere, e che lo asservono alla loro catena. La paura dell'oggetto sviluppa nel nevrotico una strana vigliaccheria, che gli impedisce di far valere se stesso e la propria opinione e gli fa temere un rafforzamento dell'influsso dell'oggetto. Teme i sentimenti coinvolgenti e non riesce a vincere la paura dell'influsso estraneo. Cioè attribuisce agli oggetti un potere che non hanno, un potere pericoloso. La sua coscienza non lo riconosce, ma nonostante la sua coscienza si rifiuti di riconoscerlo, il suo inconscio lo percepisce. Siccome il rapporto fra la coscienza e l'oggetto è relativamente rimosso, l'oggetto si àncora all'inconscio, il quale gli trasmette le proprie qualità, che sono prevalentemente arcaico-infantili. Di conseguenza il rapporto dello psicoastenico con l'oggetto diventa primitivo, cioè acquisisce le caratteristiche del primitivo rapporto con l'oggetto. Come se l'oggetto possedesse poteri magici. Gli oggetti nuovi, sconosciuti, incutono timore e diffidenza, come se nascondessero ignoti pericoli; e gli oggetti conosciuti sono come appesi alla sua psiche per un filo invisibile. Ogni cambiamento gli appare pericoloso, ogni cosa lo turba. Pertanto lo psicoastenico sogna di vivere in un'isola deserta, dove cambia solo ciò che non può non cambiare. Il romanzo Auch Einer di F. Th. Vischer descrive con grande precisione sia questo aspetto dello stato psichico dell'introverso, sia la simbolica dell'inconscio collettivo, che io in questa rappresentazione dei tipi non illustro perché non appartiene soltanto al tipo, ma è generale. c. Le peculiarità delle funzioni psicologiche fondamentali nell'atteggiamento introverso Il pensiero - Già nella descrizione del pensiero estroverso ho dato una breve caratterizzazione del pensiero introverso, sulla quale qui vorrei richiamare nuovamente l'attenzione. Il pensiero introverso si orienta prevalentemente verso il fattore soggettivo. Il fattore soggettivo è rappresentato, quanto meno, da una sensazione di guida ad opera del soggetto, che finisce per condizionare i giudizi. Talvolta funge da strumento di valutazione anche un'immagine più o meno nettamente delineata. Il pensiero riesce a occuparsi di grandezze concrete e di grandezze astratte, però in fase decisionale si orienta sempre verso il dato soggettivo. Cioè anche quando parte della esperienza concreta esso non riconduce alle cose oggettive, ma al contenuto soggettivo. Causa e fine del pensiero dell'introverso non è il fatto esterno bensì il soggetto, anche quando l'individuo vuol imprimere al suo pensiero un'impronta di oggettività. Il pensiero dell'introverso inizia nel soggetto e, pur compiendo le più ampie sortite nel territorio della realtà oggettiva, ritorna al soggetto. Quindi per quanto concerne la produzione di fatti nuovi ha un valore principalmente indiretto, in quanto comunica soprattutto nuovi punti di vista e molto meno conoscenza di fatti nuovi. Crea problematiche e teorie, apre prospettive, ma nei confronti dei fatti ha un comportamento riservato. Per esso i fatti sono esempi illuminanti, però non debbono prevalere. Vengono accolti e raccolti come elementi probatori, mai per se stessi. E quando li accetta per ciò che valgono in sé, lo fa solo in omaggio allo stile estroverso. Infatti il pensiero dell'introverso attribuisce ai fatti un'importanza secondaria, mentre allo sviluppo e alla rappresentazione dell'idea soggettiva riconosce un valore primario. Dà valore all'idea soggettiva, all'immagine simbolica, che all'occhio della mente appare buia. Perciò non mira a ricostruire concettualmente i fatti concreti, mira a illuminarli, a farli diventare un'immagine più chiara possibile. Vuol raggiungere la concretezza, vuol vedere come i fatti esterni riempiono lo spazio della sua idea; e la sua creatività sta nel fatto che e capace anche di produrre l'idea che nei fatti esterni non c'era, ma dei quali tuttavia è l'espressione più conveniente, più astratta. Il suo compito termina quando l'idea da esso creata appare sia proveniente dai fatti esterni, sia resa valida da essi. Ma come il pensiero estroverso non riesce sempre a raggiungere un concetto empirico valido partendo dai fatti concreti o a creare fatti concreti, così il pensiero introverso non riesce sempre a tradurre la propria immagine iniziale in un'idea adeguata ai fatti. Come nel primo caso l'accumularsi di fatti meramente empirici distorce il pensiero e ne soffoca il senso, così il pensiero introverso ha la pericolosa tendenza a coartare i fatti nella forma di un'immagine, o a ignorarli addirittura, onde poter sviluppare la propria immagine fantastica. In questo caso l'idea rappresentata non potrà negare la sua provenienza dalla buia immagine arcaica. Avrà un carattere mitologico, che verrà interpretato come «originalità» o, nei casi più gravi, come stranezza, se lo specialista che li studia ignora i motivi mitologici. La soggettiva forza di persuasione di un'idea del genere di solito è notevole; è tanto maggiore quanto meno viene a contatto coi fatti esterni. Anche se a chi rappresenta l'idea sembra che motivo e causa della credibilità e validità della propria idea sia il suo modesto materiale empirico, le cose stanno diversamente; in realtà l'idea deve la sua forza di persuasione al proprio archetipo inconscio, che in quanto tale ha validità generale, è vero e sarà vero per l'eternità. Ma questa verità è generale e simbolica al punto che per diventare una verità pratica dotata di un valore vitale non può non far parte delle conoscenze oggi riconosciute, e che debbono essere riconosciute. Cosa sarebbe, per esempio, una causalità che non fosse mai riconoscibile in cause pratiche e in effetti pratici? Questo pensiero si perde facilmente nella immensa verità del fattore soggettivo. Crea teorie per amore della teoria, apparentemente guardando ai fatti reali o, quanto meno, possibili; mentre in realtà tende chiaramente a passare dall'ideale al puro e semplice immaginario. Quindi vengono concepite molte possibilità, però nessuna di esse diventa realtà; e infine nascono immagini che non esprimono più nulla di esternamente reale, ma sono ancora «soltanto» simboli dell'inconoscibile. Pertanto questo pensiero diventa mistico e sterile esattamente quanto il pensiero che si occupa unicamente di fatti oggettivi. Come quest'ultimo scende di tono, diventa elaborazione mentale di fatti puri e semplici, così il primo sale di tono, mette le ali, diventa elaborazione mentale dell'inimmaginabile. Ora l'elaborazione mentale dei fatti è incontestabilmente oggettiva perché il fattore soggettivo è escluso e i fatti si dimostrano, parlano, da sé. Però anche l'elaborazione mentale dell'inimmaginabile ha una forza soggettiva, che convince direttamente e dà testimonianza di sé con la propria esistenza. La prima dice: Est, ergo est; la seconda: Cogito, ergo cogito. II pensiero introverso spinto all'eccesso dimostra direttamente la propria soggettività, il pensiero estroverso dà prova di sé attraverso la sua totale identità col fatto oggettivo. Ora, come questo dissolvendosi totalmente nell'oggetto nega se stesso, così quello si sbarazza di ogni contenuto e si accontenta della sola propria esistenza. Quindi in entrambi i casi la vita procede in quanto la funzione intellettiva vitalizza le altre funzioni ancora relativamente inconsce. Il pensiero introverso riempie il vuoto lasciato dai fatti oggettivi con una quantità di fatti inconsci. Più la coscienza limita la funzione intellettiva a un campo piccolo e vuoto, che però sembra contenere la divinità in tutta la sua portata, più la fantasia inconscia si arricchisce di molteplici fatti dalla struttura arcaica, di un pandemonium di grandezze magiche e irrazionali, che assumono un aspetto particolare a seconda della funzione che la funzione intellettiva, portatrice di vita, attiva via via. Quando si tratta della funzione intuizionale, l'«altro aspetto» è visto con gli occhi di un Kubin o di un Meyrink. Quando si tratta della funzione affettiva, nascono rapporti e giudizi affettivi fantasiosi, assurdi, pieni di contraddizioni e incomprensibili. Quando si tratta della funzione sensoriale, i sensi scoprono dentro e fuori del proprio corpo cose nuove, fanno esperienze mai fatte prima. Un esame accurato di questi cambiamenti può evidenziare la comparsa di una psicologia primitiva con tutte le sue caratteristiche. Naturalmente ciò che viene sperimentato non è soltanto primitivo, ma anche simbolico; e più appare antico e primordiale più è certo che sarà tale anche in futuro. Perché il vecchio della nostra coscienza significa a-venire. In circostanze ordinarie non riesce neppure il passaggio all'«altra parte», né - tanto meno - il passaggio salvifico attraverso l'inconscio. Il passaggio all'altra parte viene per lo più ostacolato dalla resistenza che la coscienza oppone all'assoggettamento dell'Io alla realtà inconscia, alla realtà condizionante dell'oggetto inconscio. Ne deriva uno stato di dissociazione, cioè una nevrosi col carattere della estenuazione interna e del progressivo esaurimento cerebrale, della psicoastenia. Il tipo intellettivo introverso - Come, per esempio, Darwin potrebbe rappresentare il tipo intellettivo estroverso normale, così Kant potrebbe essere definito il tipo intellettivo introverso normale, il suo opposto. Come il primo si esprime in termini di fatti, così il secondo si appella al fattore soggettivo. Darwin si rivolge al vasto campo della oggettività, Kant si riserva una critica della conoscenza in generale. Se prendiamo un Cuvier e lo contrapponiamo a un Nietzsche l'antitesi è ancora più manifesta. Il tipo intellettivo introverso è caratterizzato dalla prevalenza del pensiero sopra descritta. Come il suo omologo estroverso, è influenzato in misura determinante dalle idee, però le sue idee non scaturiscono dal dato oggettivo, ma dalla base soggettiva. Anche l'estroverso segue le proprie idee, però nella direzione opposta, non verso l'interno ma verso l'esterno. L'introverso tende ad approfondire, non ad espandere. Si differenzia innegabilmente e in misura rilevantissima dal suo omologo estroverso per questa fondamentale disposizione. Il forte ancoramento all'oggetto dell'estroverso in lui talvolta manca del tutto. Se l'oggetto è un uomo, quest'ultimo avverte chiaramente di essere considerato negativamente: nei casi meno pronunciati ha la sensazione di essere superfluo, in quelli più gravi si sente respinto. Questo rapporto negativo con l'oggetto, che va dall'indifferenza al rifiuto, caratterizza sempre l'introverso; e rende estremamente difficile descriverlo. Il suo giudizio risulta freddo, inflessibile, arbitrario e irriguardoso perché si rapporta più al soggetto che all'oggetto. Poiché è convinto della superiorità del soggetto non riconosce mai un valore vero all'oggetto, ma in qualche misura lo ignora sempre. Può essere cortese, amabile, ma alla sua cortesia si accompagna sempre un certo nervosismo che tradisce l'intenzione di disarmare l'avversario. Dev'essere placato o fatto tacere perché potrebbe diventare molesto. Non è un avversario; però, se è sensibile, avvertirà un certo rifiuto, si sentirà respinto, forse persino deprezzato. L'oggetto viene sempre in qualche modo trascurato o, nei casi peggiori, trattato con circospezione. Per cui questo tipo scompare spesso dietro una nube di malintesi, che si fa sempre più densa più egli, ricorrendo alle funzioni meno differenziate, cerca, a scopo compensatorio, di assumere una maschera di urbanità, che talvolta è in stridente contrasto con la sua vera natura. Sebbene nel costruire il proprio mondo di idee non si periti di ricorrere a qualsiasi mezzo, per azzardato e ardito che sia, senza curarsi della sua eventuale pericolosità, del fatto che potrebbe essere destabilizzante, eretico e offensivo, lesivo dei sentimenti, se l'azzardo per caso diventa realtà cade in preda a un'angoscia terribile. La cosa non gli è congeniale. Anche quando consegna al mondo i suoi pensieri non si comporta poi come una madre accorta che consegna al mondo i propri figli, ma dopo che li ha prodotti si secca enormemente se non trovano la loro strada da soli. Favorisce questa tendenza la sua mancanza di senso pratico, spesso gigantesca, o anche la sua avversione per ogni genere di pubblicità. Se a lui il suo prodotto appare giusto e vero, dev'essere giusto per forza, e gli altri debbono inchinarsi a questa verità. Non farà nulla per guadagnare qualcuno alla sua causa, specialmente se si tratta di un uomo influente. E se lo fa, lo fa quasi sempre in un modo così maldestro che finisce per ottenere l'effetto opposto a quello desiderato. Nel proprio campo ha quasi sempre esperienze negative coi concorrenti, perché non sa conquistarsi la loro simpatia. Li tratta con sufficienza, anzi fa loro capire che per lui sono «superflui». Nel perseguire le proprie idee è quasi sempre ostinato, caparbio e non influenzabile. Con questa inflessibilità contrasta fortemente la sua suggestionabilità, la sua incapacità a resistere agli influssi personali. Una volta constatata la non pericolosità di un oggetto, diventa estremamente accessibile persino a elementi di scarso valore. Essi lo raggiungono provenendo dall'inconscio. Purché non gli impediscano di perseguire le proprie idee, si lascia brutalizzare e depredare nel modo più ignobile. Poiché reputa secondario l'oggetto ed è inconsapevole della valutazione oggettiva del suo prodotto, quando viene colpito alle spalle, a tradimento, e danneggiato materialmente, non se ne accorge. Poiché sviscera al massimo i suoi problemi, finisce per complicarli, per cui cade in balìa di mille scrupoli. Quanto chiara è per lui la struttura interna dei propri pensieri, tanto oscuro è per lui il come e il dove essi entrano a far parte del mondo reale. Ha difficoltà a capire che una cosa che per lui è chiara può non essere chiara per tutti. Il suo stile è quasi sempre appesantito da ripensamenti, aggiunte, tagli, perplessità, dubbi di ogni genere, dovuti alla sua scrupolosità. Lavora con fatica. O è taciturno, o si imbatte in persone che non lo capiscono, per cui si convince che la gente è immensamente stupida. Quando per caso qualcuno lo capisce, lo sopravvaluta. Pertanto cade facilmente nelle grinfie di donne ambiziose e senza scrupoli, che approfittano della sua incapacità di valutare l'oggetto; oppure si vota al celibato, diventa un misantropo col cuore di un fanciullo. Spesso è goffo e impacciato anche il modo in cui si presenta. Vuol passare inosservato, ma ottiene l'effetto contrario perché o cura il proprio aspetto con eccessiva meticolosità, o lo trascura eccessivamente. E’ di un «candore» infantile. Nel suo specifico campo di lavoro suscita contrasti violentissimi ai quali - dato il suo «modo di sentire» primitivo - non sa tener testa altro che lasciandosi trascinare in una polemica feroce quanto sterile. Più lo si conosce, più lo si giudica positivamente. E coloro che gli vivono accanto sanno apprezzare sommamente la sua intimità. A chi non lo conosce può sembrare spigoloso, inavvicinabile, altero, spesso per di più amareggiato a causa dei pregiudizi (negativi) che nutre nei confronti della società. Come insegnante ha scarso ascendente personale, influenza poco gli allievi perché non comprende il loro modo di pensare. Inoltre insegnare non gli piace, non lo trova interessante, a meno che l'insegnamento non sia per lui un problema teorico. È un cattivo insegnante perché, invece di limitarsi a rappresentare l'argomento della lezione, mentre insegna riflette su di esso. Più questo tipo è pronunciato, più le sue convinzioni sono inflessibili. Elimina gli influssi esterni. Sul piano personale risulta poco simpatico a chi non lo conosce bene, per cui diventa dipendente dalle persone che gli sono vicine: il suo linguaggio diventa più personale e meno formale, e le sue idee diventano più profonde, però sull'argomento in corso non riesce più a esprimersi sufficientemente. Rimpiazza questa carenza con l'emotività e la sensibilità. L'influenzamento esterno, che al di fuori respinge con tutte le sue forze, lo raggiunge da dentro, partendo dall'inconscio, e deve raccogliere prove per fronteggiarlo, prove che a chi sta fuori appaiono del tutto superflue. Poiché, mancando il rapporto con l'oggetto, la sua coscienza si soggettivizza, gli appare importante ciò che segretamente è più congeniale alla sua persona. Di conseguenza finisce per scambiare la propria verità soggettiva con la propria «persona». Non cercherà mai di forzare qualcuno a condividere la proprie idee, però confuterà con acredine e in prima persona qualsiasi critica, anche se giusta. Così poco a poco si isola sotto ogni aspetto dal mondo esterno. Le sue idee inizialmente costruttive diventano distruttive perché le avvelena l’amarezza accumulatasi. E più si isola dal mondo esterno, più fortemente lotta contro l'inconscio che lo vuol influenzare e che incomincia a paralizzarlo. Più aumenta l'isolamento, che dovrebbe proteggerlo dagli influssi inconsci, più si aggrava il conflitto che lo logora internamente.. Il pensiero del tipo introverso è positivo e sintetico riguardo allo sviluppo delle idee, che si avvicinano in misura crescente a validità degli archetipi. Quando però la loro connessione con l'esperienza oggettiva diminuisce, diventano mitologiche e non corrispondono alla situazione realmente esistente. Perciò questo pensiero è valido anche per il contemporaneo solo finché è chiaramente e tangibimente correlato ai fatti noti del momento. Invece quando diventa mitologico perde rilevanza ed è fine a se stesso. Le funzioni affettiva, intuizionale e sensoriale, relativamente inconsce, antitetiche a questo pensiero, sono meno differenziate e hanno un carattere estroverso-primitivo, cui sono imputabili tutti gli influssi negativi che l'oggetto esercita sul pensiero introverso. Le misure di autodifesa e le aree protettive di cui questi individui si muniscono sono sufficientemente note, per cui posso esimermi dal rappresentarle. Servono a proteggerli dagli effetti «magici»; anche il timore nei confronti del sesso femminile è una misura autodifensiva. L'affettività - L'affettività introversa è determinata principalmente dal fattore soggettivo. Per il giudizio affettivo significa una differenza dall'affettività estroversa sostanziale quanto quella che distingue l'introversione dall'estroversione del pensiero. Rappresentare il processo affettivo introverso è senza dubbio una delle imprese più difficili, benché la vera natura di questa affettività, quando la si scopre, mostri caratteri inconfondibili. Poiché sottostà a precondizioni prevalentemente soggettive e si occupa solo secondariamente dell'oggetto, questa affettività è poco appariscente e di solito viene equivocata. È un'affettività che svaluta gli oggetti, per cui presenta connotazioni negative. È possibile scoprire l'esistenza di un sentimento positivo solo indirettamente. L'affettività introversa non mira a conformarsi all'oggetto, ma a sopraordinarsi ad esso, in quanto cerca inconsciamente di realizzare, di rendere reali, le immagini sulle quali essa si fonda. Perciò è costantemente alla ricerca di un'immagine che nella realtà non esiste e che essa in un certo modo conosce già, ha già visto. Si disinteressa degli oggetti perché non corrispondono mai al suo scopo. Aspira a una intensità interiore cui gli oggetti possono soltanto aggiungere fascino. E’ possibile solo immaginare, non certo capire, la profondità di questa affettività, che rende le persone taciturne e poco accessibili, che per riempire i profondi recessi del soggetto si ritrae pudicamente dalla brutalità dell'oggetto. Per difendersi dall'oggetto lo giudica negativamente e ostenta indifferenza nei suoi confronti. Come è noto, le immagini primordiali sono sia idea che sentimento. Perciò hanno un valore intellettivo e affettivo anche idee fondamentali quali Dio, libertà e immortalità. Quindi alla affettività introversa è applicabile tutto ciò che è stato detto sul pensiero introverso, con l'unica differenza che qui viene «sentito», tutto ciò che là viene «pensato». Ma poiché esprimere in modo comprensibile i sentimenti è più difficile che esprimere i pensieri, per illustrare anche solo approssimativamente in tutta la sua ricchezza questa affettività occorre possedere una capacità di rappresentazione, verbale o artistica, decisamente non comune. Come è difficile capire adeguatamente il pensiero soggettivo, data la sua indipendenza dall'oggetto, così è difficile, anzi ancora più difficile, capire adeguatamente l'affettività soggettiva. Per farsi capire occorre trovare una forma esterna che rappresenti in modo corrispondente l'affettività soggettiva e che al contempo sia capace di comunicare con l'interlocutore in maniera tale che in lui si svolga un processo parallelo. Poiché tra gli individui esiste una notevole somiglianza interiore (come pure esterna), questo effetto può anche essere raggiunto, benché sia difficilissimo trovare una forma congeniale al sentimento finché l'affettività è orientata prevalentemente verso le immagini primordiali. Ma quando viene alterata dall'egocentrismo questa affettività diventa poco simpatica perché a questo punto essa si occupa quasi esclusivamente dell'Io. E fa l'effetto dell'«autarchia sentimentale» o addirittura di un morboso narcisismo. Come la coscienza soggettivizzata del pensiero introverso aspira all'astrazione delle astrazioni, per cui raggiunge la massima intensità un processo intellettivo in sé vuoto, così l'affettività egocentrica può culminare in una passionalità priva di contenuti che «sente» solo se stessa. Questa è una fase mistico-estatica, ed è quella che precede il passaggio alle funzioni estroverse rimosse dalla funzione affettiva. Come al pensiero introverso si oppone un'affettività primitiva in cui l'individuo è succube del potere magico degli oggetti, così all'affettività introversa si oppone un pensiero primitivo più concreto e oggettivo che mai. Più l'affettività si emancipa dal rapporto con l'oggetto e si crea una libertà d'azione e di coscienza legata solo al soggetto, che talora si distanzia completamente da tutto il tramandato, più il pensiero inconscio diventa succube dell'oggetto. Il tipo affettivo introverso - L'affettività introversa prevale principalmente nelle donne. Queste donne, per lo più taciturne, difficilmente accessibili, incomprensibili, che si trincerano spesso dietro una maschera di banalità o puerilità, dal temperamento prevalentemente melanconico, sono donne per le quali vale il proverbio: «Acqua cheta rovina i ponti». Sono poco appariscenti e si mostrano poco. Poiché si lasciano guidare soprattutto dalla loro affettività soggettivamente orientata, i loro veri motivi per lo più restano nascosti. All'esterno palesano una personalità armoniosa, piacevolmente tranquilla, dotata di un simpatico equilibrio che non vuol coinvolgere, impressionare, né tanto meno manovrare e cambiare il prossimo. Ma quando è pronunciata questa apparenza fa pensare alla freddezza o addirittura all'indifferenza per le sorti, buone o cattive, degli altri. Si avverte allora nettamente il loro distacco affettivo dall'oggetto. Nel tipo normale questo si verifica solo quando l'oggetto interviene troppo marcatamente. Quindi l'armonia affettiva esiste solo finché l'oggetto non agisce con forza eccessiva e non cerca di intralciare la via al soggetto. In realtà l'affettività dell'introversa non accompagna le emozioni dell'oggetto, ma le smorza, si difende da esse, per meglio dire le «raffredda» con un giudizio negativo. La disponibilità a compiere un percorso parallelo, tranquillo e armonioso esiste costantemente, tuttavia per l'oggetto estraneo l'affettiva introversa non palesa amabilità o sollecitudine, ma indifferenza, freddezza e persino ripulsa; lo fa sentire addirittura superfluo. Di fronte a un evento entusiasmante, coinvolgente, l'affettiva introversa manifesta una benevola neutralità cui si associa talvolta un leggero tono di superiorità e di critica, che gela, demolisce l’oggetto, se è sensibile. Ma una emozione travolgente può essere repressa con micidiale freddezza solo se non aggredisce l'introversa dall'interno, cioè solo se non attiva in lei un'immagine affettiva arcaica facendole perdere l'equilibrio. Quando ciò si verifica questa donna subisce un blocco, sul momento si paralizza, però poi oppone sempre una resistenza violentissima che toccherà l'oggetto nel suo punto più sensibile. Il rapporto con l'oggetto è mantenuto più tranquillo e sicuro possibile e si oppone ostinatamente all'insorgenza della passione. Perciò questa donna è poco espansiva, poco calorosa, e l'oggetto, quando ne diventa consapevole, sente di essere sottovalutato. Questo però non avviene sempre. Molto spesso tale assenza di calore e di vera partecipazione rimane ignorata a lungo, finché non si presentano sintomi, sviluppati dall'inconscio, che segnalano maggiormente la situazione. Poiché questo tipo è per lo più freddo e riservato, un osservatore superficiale può giudicarlo incapace di sentire. Un giudizio profondamente sbagliato in quanto i suoi sentimenti, se non si espandono, si sviluppano però in profondità, in intensità. Per esempio: la compassione che si espande si manifesta con parole e fatti ma non dura molto a lungo, mentre la compassione che si sviluppa in profondità (intensa) rende muto il soggetto, ma acquista le proporzioni della passione vera e propria che partecipa al dolore del mondo. Può aumentare a dismisura ed esplodere inducendo il soggetto a compiere un'azione eroica, con la quale però né il soggetto né l'oggetto riescono a trovare un rapporto appropriato. L'occhio cieco dell'estroverso scambia questo tipo di compassione per freddezza; il giudizio estroverso non può credere a forze invisibili. Nella vita di questo tipo tale equivoco è un evento caratteristico. La sua presunta freddezza viene utilizzata di solito per provare l'assenza di un suo rapporto sentimentale profondo con l'oggetto. In realtà il vero oggetto di questa affettività, che rimane in parte misterioso all'introverso stesso, se è normale, esprime il suo obiettivo e il suo contenuto in una religiosità nascosta, gelosamente difesa da occhi profani, o in forme poetiche, ugualmente tutelate da intrusioni estranee, cui si accompagna la segreta ambizione di affermare una superiorità rispetto all'oggetto. Le donne che hanno figli riversano su di essi la loro passionalità. Benché nel tipo normale la accennata tendenza a sopraordinare all'oggetto i propri sentimenti o a prevaricarlo non sia molto marcata, (non ha un ruolo di disturbo né porta mai a un tentativo serio in tal senso) tuttavia essa trapela in parte dall'effetto personale sull'oggetto, sotto forma di un influsso dominante, spesso difficile da determinare. L'oggetto avverte una sorta di oppressione o un senso di soffocamento che isola la donna dal mondo circostante. In tal modo essa acquista una specie di potere misterioso, che può affascinare fortemente l'uomo estroverso perché tocca il suo inconscio. Questo potere nasce dalle immagini affettive dell'inconscio, però dalla coscienza viene facilmente rapportato all'Io e diventa tirannia personale. Quando invece il soggetto inconscio viene identificato con l'Io, diventa ambizione, arroganza, presunzione anche il misterioso potere del sentimento intenso. Ne deriva un tipo di donna che è notoriamente negativo per la sua ambizione senza scrupoli e per la sua crudeltà. Ma questa svolta porta alla nevrosi. Finché l'Io si sente inferiore al soggetto inconscio e il sentimento si sente superiore e più potente dell'Io, il tipo è normale. Il pensiero inconscio è arcaico, certo, però lo compensa validamente mediante «riduzioni» la eventuale velleità di elevare l'Io a dignità di soggetto. Quando però, in seguito alla totale soppressione degli influssi riduttivi (intellettivi inconsci), questo si verifica, il pensiero inconscio entra in opposizione e si proietta negli oggetti. Così il soggetto, diventato egocentrico, avverte il potere e l'importanza degli oggetti deprezzati. La coscienza incomincia a percepire ciò che «pensano gli altri». Naturalmente gli altri pensano tutto il male possibile, fanno progetti malvagi, sobillano e tramano di nascosto eccetera. Per prevenirli il soggetto incomincia a sua volta a intrigare, sospettare, spiare e tramare. Per sopraffare l'oggetto che minaccia di sopraffarlo è costretto a compiere sforzi enormi. Nascono così nascoste rivalità a non finire. E in queste lotte esasperate non si risparmia alcun mezzo, per malvagio e basso che sia, pur di trionfare, e si fa cattivo uso persino delle virtù. Tale sviluppo porta all'esaurimento. La forma di nevrosi che ne deriva, più che isterica, è nevrastenica, e nelle donne spesso compromette in forte misura anche lo stato fisico: anemia e relative conseguenze, ad esempio. Riepilogo dei tipi razionali - I due tipi sopra descritti sono razionali in quanto si fondano su funzioni razionalmente giudicanti. Il giudizio razionale non si basa unicamente sul dato oggettivo ma anche sul fattore soggettivo. Però il prevalere dell'uno o dell'altro fattore, dovuto a una disposizione psichica che spesso si rivela già nella prima infanzia, sottomette la ragione; mentre un giudizio realmente razionale dovrebbe appellarsi sia al fattore oggettivo che a quello soggettivo, dovrebbe poter soddisfare entrambi. Questo però sarebbe un caso ideale, presupporrebbe cioè uno sviluppo parallelo della estroversione e della introversione. Invece nella realtà questi due movimenti si escludono a vicenda, e finché esiste tale dicotomia non possono assolutamente coesistere; possono tutt'al più seguire, succedere l'uno all'altro. Quindi una ratio ideale è impossibile anche nel soggetto normale. Un tipo razionale ha sempre una ratio tipicamente variata. Così nei tipi razionali introversi il giudizio è senza dubbio razionale, però è orientato maggiormente verso il fattore soggettivo. La logica non ha bisogno di essere «piegata» perché la unilateralità è già nella premessa. La premessa è il prevalere del fattore soggettivo, che preesiste a ogni conclusione e a ogni giudizio. Il valore del fattore soggettivo è superiore a priori a quello del fattore oggettivo. Come ho già detto, qui non si tratta di un valore acquisito, bensì di una disposizione naturale preesistente a ogni valutazione. Perciò all'introverso il giudizio razionale appare necessariamente diverso, sebbene di poco, da come appare all'estroverso. Per menzionare il caso più comune, all'introverso la catena di deduzioni che conduce al fattore soggettivo appare un po' più razionale di quella che conduce al fattore oggettivo. Questa differenza, nel singolo caso quasi inavvertibile, nel «grande» provoca contrasti insuperabili, che sono tanto più irritanti quanto meno si è consapevoli del fatto che la differenza dei punti di vista (minima nel caso isolato) è dovuta alla «premessa psicologica». Quasi sempre si fa l'enorme sbaglio di cercare di evidenziare un errore nelle conclusioni invece di riconoscere la diversità della premessa psicologica. Ogni tipo razionale ha difficoltà a riconoscere l'esistenza di tale premessa perché essa inficia la validità, apparentemente assoluta, del suo principio e lo consegna al suo opposto, il che equivale a una catastrofe. Il tipo introverso non viene capito quasi più spesso del tipo estroverso, non perché l'estroverso sia nei suoi confronti un avversario più spietato o più critico di quanto potrebbe essere egli stesso, ma perché è contro di lui lo stile del tempo in cui viviamo e che egli stesso contribuisce a creare. E’ in minoranza, non numericamente ma per il suo modo di sentire, non rispetto all'estroverso ma rispetto al nostro modo occidentale di concepire il mondo e la vita. Siccome contribuisce egli stesso a creare queste condizioni, si scava la fossa da sé; infatti lo stile oggi imperante - che riconosce quasi esclusivamente il visibile e il tangibile - è contro il suo principio. Deve svalutare il fattore soggettivo perché non è visibile. Si sente in obbligo di sopravvalutare l'oggetto, come fa l'estroverso, perché il fattore soggettivo non è tangibile. Ma siccome non valuta come dovrebbe nemmeno il fattore soggettivo, prova per giunta un senso di inferiorità. Quindi nessuna meraviglia se proprio nel nostro tempo, e più precisamente nei movimenti che lo hanno immediatamente preceduto, il fattore soggettivo si esprime così prepotentemente, e quindi in modo tanto innaturale. Mi riferisco all'arte dei nostri giorni. La sottovalutazione del proprio principio rende l'introverso un egoista e gli impone la psicologia del represso. E più egoista diventa, più gli sembra per giunta che i repressori siano gli altri, quelli capaci di costruire lo stile oggi imperante, quelli dai quali egli deve difendersi e tutelarsi. Non si accorge quasi mai che non aderendo al fattore soggettivo con la stessa fedeltà e dedizione con cui l'estroverso aderisce all'oggetto commette il più madornale degli errori. La sottovalutazione del proprio principio lo porta inevitabilmente all'egoismo, per cui alimenta egli stesso il pregiudizio dell'estroverso nei suoi confronti. Se invece rimanesse fedele al proprio principio sarebbe giudicato a torto un egoista, e il suo atteggiamento sarebbe giustificato e confermato dagli effetti generali da esso prodotti, e distruggerebbe ogni malinteso. La funzione sensoriale - Anche la funzione sensoriale, che per sua natura dipende dall'oggetto e dallo stimolo oggettivo, nell'atteggiamento introverso subisce una modifica e non di poco conto. Anch'essa ha un fattore soggettivo in quanto, oltre all'oggetto che viene percepito, esiste un soggetto che percepisce e che allo stimolo oggettivo aggiunge la propria disposizione soggettiva. Nell'atteggiamento introverso la funzione sensoriale poggia prevalentemente sulla componente soggettiva della percezione. Lo dimostrano con grande evidenza le opere d'arte che riproducono oggetti esterni. Quando più pittori ritraggono lo stesso paesaggio cercando di riprodurlo più fedelmente possibile, ogni quadro risulta tuttavia diverso dall'altro, non solo a causa della diversa capacità tecnica dei singoli artisti, ma soprattutto perché essi vedono lo stesso paesaggio in modo diverso. Anzi in alcuni dipinti l'atmosfera e il movimento del colore e delle figure evidenziano addirittura una espressa diversità psichica. Queste caratteristiche rivelano una partecipazione, più o meno marcata, del fattore soggettivo. Il fattore soggettivo della funzione sensoriale è sostanzialmente lo stesso già descritto per le funzioni precedentemente illustrate. E una disposizione inconscia che modifica la percezione sensoriale fin dal suo nascere privandola del suo carattere di mero effetto oggettivo. In questo caso la percezione si rapporta primariamente al soggetto, e solo secondariamente all'oggetto. E’ l'arte quella che dimostra con la massima evidenza quanto potente può essere il fattore soggettivo. Esso talvolta prevale fino al punto da sopprimere del tutto il mero influsso dell'oggetto; e malgrado ciò la percezione rimane percezione, anche se è diventata una percezione del fattore soggettivo; e l'azione dell'oggetto scende al livello della pura eccitazione. La sensorialità introversa si sviluppa in questa direzione. Esiste, sì, una percezione sensoriale pura, però si ha l'impressione che non siano gli oggetti a penetrare nel soggetto, ma che il soggetto veda in modo diverso dagli altri, o veda cose completamente diverse da quelle che vedono gli altri. Il soggetto percepisce le cose come le percepiscono tutti, però non si ferma al solo influsso dell'oggetto, ma si occupa della percezione soggettiva scatenata dall'eccitamento prodotto dall'oggetto. La percezione soggettiva è molto diversa dalla percezione oggettiva. Nell'oggetto è irreperibile o tutt'al più accennata; cioè, in altri individui può essere simile, però non è direttamente motivabile col comportamento oggettivo delle cose. Non ha l'aria di un prodotto della coscienza, è troppo genuina per esserlo. Fa l'effetto di un prodotto della psiche, perché in essa sono riconoscibili gli elementi di una categoria psichica superiore. Però non è quella cui appartengono i contenuti della coscienza. Si tratta di una disposizione, di presupposti appartenenti all'inconscio collettivo, di immagini mitologiche, di idee di potenza. La percezione soggettiva è importante, dice di più della mera immagine dell'oggetto, naturalmente solo a chi il fattore soggettivo dice qualcosa. Un altro attribuisce scarso valore a un'impressione soggettiva riprodotta perché non assomiglia sufficientemente all'oggetto, quindi ha fallito il suo scopo. Perciò la sensorialità introversa, più che la superficie del mondo fisico, ne coglie i retroscena. Per essa non è determinante la realtà dell'oggetto, ma quella del fattore soggettivo; per essa sono determinanti le immagini arcaiche che nel loro insieme rappresentano un mondo psichico speculare. Ma questo specchio ha la peculiare capacità di rappresentare i contenuti della coscienza non nelle forme a noi note e familiari, ma, per così dire, sub specie aeternitatis, cioè come se li vedesse una coscienza antichissima, vecchia di milioni di anni. Tale coscienza vedrebbe non solo il divenire e il passare delle cose e insieme il loro «essere» presente e immediato, ma anche altre cose, quelle che sono esistite prima e quelle che esisteranno dopo di esse. Per questa coscienza il momento presente è improbabile. Questa, ovviamente, è solo una similitudine; però mi è servita per visualizzare la particolare natura della percezione introversa. La percezione introversa comunica un'immagine che, più che riprodurre l'oggetto, lo carica di esperienza, dell'esperienza soggettiva lontana nel tempo e di quella futura. Quindi la mera impressione sensoriale si sviluppa in profondità con l'aiuto dell'intuito, mentre la percezione estroversa coglie l'essere momentaneo e palese delle cose. Il tipo sensoriale introverso - Il primato della sensorialità introversa crea un tipo ben preciso contraddistinto da caratteristiche ben precise. È un tipo irrazionale in quanto fa le sue scelte non in base a giudizi razionali ma guardando prevalentemente al dato oggettivo. Mentre il tipo sensoriale estroverso è determinato dall'intensità dell'influsso proveniente dall'oggetto, l'introverso è determinato dall'intensità della componente soggettiva della percezione scatenata dall'oggetto: quindi la correlazione fra oggetto e percezione non è proporzionale ma inadeguata e arbitraria. Perciò osservandolo dall'esterno non è mai possibile prevedere cosa lo impressionerà e cosa non lo impressionerà. L'irrazionalità di questo tipo si manifesta in tutta la sua portata quando esiste una capacità e volontà di espressione proporzionale all'intensità della percezione, per esempio quando l'individuo è un artista produttivo. Questo però è un caso eccezionale. Normalmente è peculiare della irrazionalità di questo tipo proprio la sua difficoltà ad esprimersi. Altre volte questo tipo manifesta calma, passività e autocontrollo razionale, caratteristiche che portano fuori strada l'osservatore superficiale, che può giudicarlo «razionale», mentre in realtà esse dipendono proprio dall'assenza di un rapporto con gli oggetti. Nel caso normale l'oggetto non viene svalutato deliberatamente, ma viene privato dell'effetto da esso prodotto nel senso che tale effetto viene immediatamente rimpiazzato da una reazione soggettiva, che non è più in rapporto con la realtà dell'oggetto. Ovviamente si ha l'impressione di una svalutazione dell'oggetto. A questo tipo di solito si rivolge la domanda: qual è lo scopo della nostra esistenza, perché viviamo, come giustifica l'esistenza degli oggetti se tutto ciò che è essenziale avviene in assenza dell'oggetto? Nei casi molto pronunciati questo dubbio sarà giustificato, in quelli normali no; infatti la percezione non può fare a meno dello stimolo oggettivo. Solo che l'introverso lo valuta diversamente da come farebbe supporre lo stato delle cose. Chi osserva dall'esterno ha l'impressione che l'influsso dell'oggetto non raggiunga il soggetto. Ed è un'impressione che risponde a verità; infatti fra l'oggetto e il soggetto si intromette un contenuto soggettivo proveniente dall'inconscio che intercetta l'influsso proveniente dall'oggetto. Questa interferenza può essere così massiccia da far pensare che l'individuo si difenda direttamente dagli influssi degli oggetti. Nei casi pronunciati questo tentativo di difesa è reale. Basta che l'inconscio sia anche leggermente potenziato perché la componente soggettiva della percezione sia forte al punto da soffocare quasi del tutto l'azione esercitata dall'oggetto. Ne deriva: per l'oggetto la sensazione di una svalutazione totale, per il soggetto una concezione falsata della realtà, che però è tale da rendere l'individuo incapace di distinguere l'oggetto reale dalla percezione soggettiva solo nei casi patologici. Tale importante distinzione scompare cioè solo nelle psicosi. Tuttavia, anche se l'oggetto viene visto in tutta la sua realtà, la percezione soggettiva può influenzare enormemente molto prima sia le funzioni intellettiva e affettiva sia l'azione. Nei casi in cui l'azione esercitata dall'oggetto, per la sua particolare intensità o per la perfetta somiglianza con l'immagine inconscia, raggiunge il soggetto, anche il caso normale di questo tipo agisce conformemente alla propria disposizione inconscia. Questo suo modo di agire ha un carattere «illusionistico» rispetto alla realtà oggettiva, e quindi quanto mai bizzarro. Rivela immediatamente la soggettività escludente la realtà di questo tipo. Invece quando l'influsso esercitato dall'oggetto non penetra fino in fondo, incontra una benevola neutralità, che tradisce scarso interesse e che tende costantemente a placare e a equilibrare. Pur di ridurre l'effetto prodotto dall'oggetto, per contenerlo entro i limiti necessari essa innalza il troppo basso, abbassa il troppo alto, smorza ciò che entusiasma, frena ciò che è stravagante e riduce l'insolito alla formula «giusta». Anche questo tipo viene giudicato oppressivo nei confronti di coloro che lo circondano perché la sua totale «innocuità» non elimina ogni dubbio. Quando invece è realmente candido, innocuo, diventa facilmente vittima dell'aggressione e della prepotenza altrui. Di queste persone di solito si abusa, per cui esse nel momento e luogo più inopinato si vendicano opponendo una resistenza tenacissima. Nel soggetto privo di talento artistico tutte le impressioni raggiungono il profondo e si impadroniscono della coscienza senza che esso riesca a esprimere il fascino che ne subisce. Questo tipo dispone di possibilità di espressione unicamente arcaiche per le sue impressioni, perché in lui le funzioni intellettiva e affettiva sono relativamente inconsce, o, se sono consce, dispone soltanto di espressioni ovvie e banali. In quanto consce, sono funzioni completamente inadatte a esprimere adeguatamente le percezioni soggettive. Di conseguenza è molto difficile capire questo tipo. Esso accede con grande difficoltà alla comprensione oggettiva. Ma ha difficoltà persino a capire se stesso. Il suo sviluppo si allontana dalla realtà dell'oggetto e lo consegna alle proprie percezioni soggettive, che orientano la sua coscienza verso una realtà arcaica, cosa della quale egli, poiché non possiede un giudizio comparativo, non è consapevole. In effetti si muove in un mondo mitologico nel quale uomini, animali, treni, case, fiumi e monti gli appaiono come demoni, alcuni benevoli, altri malevoli. Egli non se ne rende conto, ma essi agiscono sul suo giudizio e sulle sue azioni; infatti giudica e agisce come se avesse a che fare con forze del genere. Incomincia ad esserne cosciente solo quando scopre che le sue sensazioni divergono totalmente dalla realtà. Se propende per la ratio oggettiva giudicherà abnorme, patologica, questa divergenza, mentre se resta fedele alla propria irrazionalità considera irreale e fittizio il mondo oggettivo. Però arrivano a questo punto solo i casi molto gravi. Il tipo normale si limita a chiudersi in se stesso e a considerare banale la realtà, con la quale il suo inconscio ha un rapporto arcaico. Il suo inconscio è contraddistinto principalmente dalla rimozione dell'intuito, che ha un carattere estroverso e arcaico. Mentre l'intuito estroverso possiede «buon naso» per tutte le possibilità della realtà oggettiva, l'intuito inconscio, arcaico, fiuta invece i retroscena, ambigui, oscuri e pericolosi, della realtà. Per esso l'intenzione reale e consapevole dell'oggetto non significa nulla, per esso hanno importanza tutte le possibilità arcaiche che precedono tale intenzione. Quindi questo intuito, che scava pericolosamente nei recessi bui, ha qualcosa di sinistro che spesso è in stridente contrasto con la benevola innocuità della coscienza. Finché l'individuo non si allontana troppo dall'oggetto l'intuito inconscio compensa salutarmente l'atteggiamento fantasioso e credulo della coscienza. Ma quando l'inconscio entra in opposizione con la coscienza, l'intuito inconscio esce allo scoperto e sviluppa i suoi effetti, che si impongono prepotentemente all'individuo e provocano l'insorgenza di idee ossessive estremamente negative sugli oggetti. Ne deriva per lo più una psiconevrosi ossessiva nella quale i sintomi dell'esaurimento sono più marcati di quelli dell'isteria. L’intuito - Nell'atteggiamento introverso l'intuito è orientato verso gli «oggetti interni», come possiamo a buon diritto definire gli elementi dell'inconscio. Infatti nei confronti della coscienza gli elementi dell'inconscio, benché possiedano una realtà soltanto psichica, e non una realtà fisica, si comportano esattamente come gli oggetti esterni. Per la percezione intuizionale gli oggetti interni sono immagini soggettive di cose che non sono reperibili nell'esperienza esterna ma che costituiscono i contenuti dell'inconscio; se vogliamo, dell'inconscio collettivo. Ovviamente di per sé questi contenuti non sono accessibili all'esperienza, caratteristica questa che li accomuna all'oggetto esterno. Infatti come gli oggetti esterni sono solo relativamente come noi li percepiamo, così anche le forme fenomeniche degli oggetti interni sono solo relative, prodotti della loro natura, a noi inaccessibile e della peculiarità della funzione intuizionale. Come la funzione sensoriale anche quella intuizionale ha il suo fattore soggettivo, che nell'intuito estroverso è fortemente represso, mentre in quello introverso diventa una grandezza determinante. L'intuito introverso, benché riceva gli impulsi dagli oggetti esterni, non si ferma alle possibilità esterne, ma si sofferma su ciò che l'esterno ha scatenato interiormente. Mentre la sensazione introvertita si limita praticamente a percepire i fenomeni neurologici prodotti dall'inconsio e si sofferma su di essi, quella intuizionale reprime questo lato del fattore soggettivo e percepisce l'immagine indotta dal processo neurologico. Per esempio, quando una persona viene colta da un accesso psicogeno di vertigine, la percezione si sofferma sulla natura di questo disturbo neurologico registrandone l'intensità, la durata, il modo in cui è iniziato e il modo in cui scompare, senza ricercare il fattore che lo ha scatenato. Invece l'intuito, nel quale la sensazione serve solo ad attivare l'impulso ad agire subito, cerca di scoprire cosa c'è dietro, percepisce subito anche l'immagine interna che ha causato l'accesso di vertigine. Vede l'immagine di un uomo che vacilla, colpito al cuore da una freccia, e ne rimane affascinato. Per cui si sofferma su di essa e cerca di indagare, di scoprire i dettagli del fenomeno. Trattiene l'immagine e registra con grande partecipazione il modo in cui si modifica, evolve e infine scompare. Per cui l'intuito introverso percepisce tutti i fenomeni che si svolgono dietro le quinte con la stessa chiarezza con cui la funzione sensoriale estroversa percepisce gli oggetti esterni. Per questo per l'intuito le immagini inconsce hanno la dignità di cose o oggetti. Però l'intuito, poiché esclude il concorso della percezione, o non arriva alla conoscenza, o raggiunge una conoscenza insufficiente, attraverso le immagini inconsce, delle alterazioni neurologiche, degli influenzamenti del corpo. Quindi le immagini appaiono come autonome, a sé stanti, come se non avessero rapporti né con l'oggetto né col soggetto. Di conseguenza nell'esempio testé citato all'intuitivo introverso colto da un accesso di vertigine non verrebbe in mente di pensare che l'immagine possa avere un rapporto con la sua persona. All'osservatore che ha un atteggiamento giudicante sembrerà quasi assurdo, impossibile; invece è un dato di fatto, una realtà che ho riscontrato spesso in questo tipo. La strana indifferenza che l'intuitivo estroverso prova per gli oggetti esterni è uguale a quella che l'intuitivo introverso prova nei confronti degli oggetti interni. Come l'intuitivo estroverso è costantemente in cerca di nuove possibilità e le insegue senza curarsi del bene o del male proprio o altrui, infischiandosi delle convenienze, e nella sua smania di rinnovamento demolisce via via ciò che ha appena costruito, così l'intuitivo introverso passa da immagine a immagine alla ricerca di tutte le possibilità del fertile grembo dell'inconscio, senza stabilire una connessione tra il fenomeno e se stesso. Come per chi si ferma alla percezione il mondo non diventa mai un problema morale, così per chi si limita a intuire, il mondo delle immagini non diventa mai un problema morale. Sia per l'uno che per l'altro si tratta di un problema estetico, di una questione che attiene alla percezione, alla «sensazione». Quindi l'intuitivo introverso perde la consapevolezza sia della propria esistenza fisica sia dell'effetto che essa produce sugli altri. Un osservatore estroverso direbbe che per un individuo siffatto «la realtà non esiste, che esso insegue fantasie infruttuose». La visione delle immagini dell'inconscio che la creatività produce incessantemente è infruttuosa ai fini dell'utilità immediata. Tuttavia, essendo queste immagini possibilità di idee che potrebbero influenzare negativamente l'energia, nell'economia generale della psiche questa funzione, che è la più estranea di tutte al mondo esterno, è indispensabile - come per la vita psichica di un popolo è indispensabile il tipo corrispondente. Se questo tipo non esistesse Israele non avrebbe avuto i suoi profeti. L'intuito introverso coglie le immagini che provengono dalla base dell'inconscio, presenti in essi a priori, ereditarie. Questi archetipi, la cui essenza più intima è inaccessibile all'esperienza, rappresentano il precipitato dei processi psichici di coloro che ci hanno preceduto, la ripetizione per milioni di volte di esperienze dell'esistenza organica accumulatesi e condensatesi in tipi. Perciò in questi archetipi sono rappresentate tutte le esperienze che sono state vissute su questo pianeta. Nell'archetipo esse sono tanto più marcate quanto più sono state frequenti e intense. Kant direbbe che l'archetipo è il noumeno dell'immagine che l'intuito percepisce e percependo genera. Ora, poiché l'inconscio non è affatto un qualcosa che si limita a esistere, una sorta di caput mortuum psichico, ma è un qualcosa che convive (che partecipa dell'evento generale) e subisce trasformazioni interne intimamente legate ad esso, l'intuito introverso percependo i processi interni fornisce certi dati (informazioni) che possono essere importantissimi per la concezione dell'evento generale, anzi può addirittura prevedere, più o meno chiaramente, sia le nuove possibilità sia ciò che avverrà successivamente. Tale capacità profetica si spiega col suo rapporto, con gli archetipi, che rappresentano il punto di partenza di tutte le cose sperimentabili. Il tipo intuitivo introverso - L'intuito introverso, quando è la funzione dominante, crea un tipo ben preciso: da un lato, il sognatore e veggente mistico, dall'altro il fantasioso e l'artista. Quest'ultimo potrebbe rappresentare il caso normale perché il fantasioso tende generalmente a sviluppare il carattere percettivo dell'intuito. L'intuitivo di norma si sofferma sulla percezione, il suo problema più importante è la percezione e, se è un artista produttivo, il modo di rappresentarla. Invece il fantasioso si ferma alla visione, si accontenta di essa e si lascia determinare da essa. L'approfondimento dell'intuizione provoca, ovviamente, un allontanamento, spesso straordinario, dell'individuo dalla realtà tangibile, per cui diventa egli stesso un enigma per le persone che lo circondano. Se è un artista, la sua arte annuncia cose straordinarie, che non sono di questo mondo, che risplendono di tutti i colori dell'arcobaleno, che sono significative e insieme banali, belle e insieme grottesche, sublimi e nello stesso tempo bizzarre. Se non è un artista, è spesso un genio misconosciuto, una grandezza sprecata, una sorta di sapiente-mezzo-matto, una figura da romanzo «psicologico». Benché fare della percezione un problema morale non sia del tutto congeniale all'intuitivo introverso, in quanto questo tipo non possiede funzioni giudicanti sufficientemente sviluppate, tuttavia già una modesta differenziazione del giudizio può trasformare in lui la visione da fatto puramente estetico in fatto morale. Ne deriva una varietà di questo tipo che è sostanzialmente diversa dalla sua forma estetica, ma che è pur sempre caratteristica dell'intuitivo introverso. Il problema morale nasce quando l'intuitivo stabilisce un rapporto con la propria visione, quando non si accontenta più della mera visione e della sua valutazione e strutturazione estetica, ma arriva a chiedersi: che significato ha la tal cosa per me, o per il mondo? Quale dovere o compito ne deriva per me o per il mondo? L'intuitivo puro, che rimuove il giudizio o dispone di un giudizio che è al servizio unicamente della percezione, non arriva mai a porsi questo problema, perché a lui interessa soltanto il «come» della percezione. Quindi trova il problema morale incomprensibile o addirittura assurdo, e il suo pensiero allontana da sé la visione il più possibile. Non così l'intuitivo moralmente atteggiato, che si occupa invece del significato di una visione, che si preoccupa meno delle possibilità estetiche della visione che del suo significato. Il suo giudizio, anche se spesso solo confusamente, gli consente di capire che, in quanto uomo, egli fa parte della propria visione, che la visione non può soltanto essere vista ma vuol anche diventare parte della sua vita. E grazie a questa constatazione si sente in dovere di riformare la sua visione rendendola parte della propria vita. Ma siccome si basa principalissimamente sulla visione, il suo tentativo morale risulta unilaterale. L'intuitivo introverso moralmente atteggiato rende se stesso e la propria vita simbolici, cioè conformi al significato interiore ed eterno dell'evento, non alla realtà effettiva e presente. Per cui priva se stesso anche della capacità di agire su questa, infatti rimane incomprensibile. Il suo linguaggio non è quello che usano tutti gli altri, è un linguaggio esageratamente soggettivo. Le sue argomentazioni non convincono: mancano della ratio che convince. E capace solo di professare o annunciare. E’ la voce di colui che predica nel deserto. L'intuitivo introverso rimuove in sommo grado la percezione dell'oggetto. Il suo inconscio è caratterizzato da questa rimozione. Nell'inconscio esiste una funzione sensoriale estroversa compensatoria di tipo arcaico. Quindi per la sua personalità inconscia potrebbe essere definito un tipo sensoriale estroverso di qualità inferiore, dalle connotazioni primitive. Questa percezione è contraddistinta da istintualità e assenza di misura, oltre che da uno straordinario ancoramento all'impressione sensoriale. Questa qualità compensa l'atmosfera rarefatta dall'atteggiamento conscio impedendogli di «sublimarsi» del tutto. Tuttavia quando l'atteggiamento conscio diventa eccessivo e si instaura una subordinazione totale alla percezione interna, l'inconscio entra in opposizione: per cui si manifestano sensazioni ossessive, con un esagerato ancoramento all'oggetto, che ostacolano l'atteggiamento conscio. La malattia è una nevrosi ossessiva i cui sintomi sono in parte ipocondriaci, in parte una ipersensibilità degli organi dei sensi, in parte un ossessivo attaccamento a determinate persone o ad altri oggetti. Riepilogo dei tipi irrazionali - I due tipi testé descritti sono quasi inaccessibili a una valutazione esterna. Poiché sono introversi, per cui hanno scarsa capacità o volontà di esternazione, offrono pochi spunti a una corretta valutazione. Poiché la loro attività è volta prevalentemente all'interno, all'esterno non si osservano che ritrosia, assenza di partecipazione o insicurezza e un imbarazzo apparentemente immotivato. Se qualcosa trapela, si tratta per lo più di manifestazioni indirette delle funzioni meno differenziate e relativamente inconsce. Questo comportamento, ovviamente, nelle persone che li circondano non può che ingenerare pregiudizi nei loro confronti. Del resto questi tipi, poiché manca loro la capacità di giudizio, non si capiscono nemmeno da sé, come non capiscono perché l'opinione pubblica li svaluti costantemente. Cioè non si rendono conto del fatto che anche la loro prestazione esterna è di qualità inferiore, perché sono abbagliati dalla ricchezza degli eventi soggettivi. Quanto avviene nel loro interno li affascina al punto che non si accorgono che ciò che comunicano agli altri contiene molto poco di ciò che vivono e sperimentano dentro di sé, dell'oggetto interno al quale sono ancorati. Il carattere frammentario e per lo più episodico delle loro comunicazioni presuppone negli altri una capacità di comprensione e una disponibilità a capire che essi in realtà non possiedono. Per giunta la loro comunicazione manca di calore-affluente all'oggetto, di quel calore che avrebbe forse il potere di convincere. Senza rendersene conto e senza averne l'intenzione questi tipi hanno invece un comportamento che tradisce spesso un atteggiamento di rifiuto. Può giudicarli correttamente e con occhio indulgente solo chi sa quanto sia difficile per loro comunicare con un linguaggio comprensibile quanto provano dentro di sé. Tuttavia questa indulgenza non deve spingersi al punto di esimerli dal dovere di comunicare. Questo li danneggerebbe enormemente. Già il loro destino li pone, forse più frequentemente degli altri, di fronte a enormi difficoltà esterne che li disingannano, per far loro pagare lo scotto per il privilegio della ebbrezza che suscita in essi la visione interiore. Spesso è un'emergenza che li costringe a comunicare. Da un punto di vista estroverso e razionalistico questi individui sono i più inutili degli uomini. Da un punto di vista superiore sono invece testimonianze viventi del fatto che possono essere eccitanti e movimentatissimi non solo il mondo e la vita esterni ma anche il mondo e la vita interiori. Certo, questi tipi sono dimostrazioni unilaterali della natura, però chi non si lascia convincere dalla «moda del giorno» vede in essi persone che possono e hanno molto da insegnare. Gli individui con questo atteggiamento sono promotori a modo loro di cultura, e sono educatori. Più di ciò che essi dicono insegna la loro vita. La loro vita e il loro più grande difetto, la incapacità di comunicare, ci fanno capire quale sia uno dei più grossi errori della nostra cultura: il fatto che crediamo nel valore dell'insegnamento tramite le parole e i metodi. Certo, su un bambino i paroloni dei genitori fanno un grande effetto, per cui siamo portati a credere che essi lo educhino. Invece lo educa ciò che i genitori vivono, sperimentano, mentre ciò che essi aggiungono al loro comportamento, sotto forma di parole e gesti, non fa che confonderlo enormemente. La stessa cosa vale per l'insegnante. Tuttavia noi crediamo a tal punto nei metodi che, qualora il metodo sia buono, riteniamo valente anche l'insegnante che lo adotta. Ma l'individuo che vale poco non è mai un buon maestro, anche se nasconde la sua effettiva inferiorità, che segretamente avvelena l'allievo, dietro a una metodica eccellente e a una altrettanto brillante capacità di esprimersi sul piano intellettivo. Naturalmente l'allievo in età più matura non chiederà che di conoscere metodi efficaci, perché è già succube dell'atteggiamento generale, che crede nel «metodo di successo». Ha già imparato che l'allievo migliore è la testa più vuota che adotta un metodo pedissequamente. Intorno a lui tutti si adoperano per spiegargli che il successo e la felicità sono tutti all'esterno e che basta adottare il metodo giusto per vedere realizzati tutti i propri desideri. O non è invece la vita del suo insegnante di religione a dar prova di quella felicità che si irradia dalla ricchezza della visione interiore? Certo, gli irrazionali introversi non sono maestri umanamente perfetti; ad essi manca la ratio e l'etica della ratio; però la loro vita insegna che esiste l'altra possibilità, quella della quale la nostra cultura ci fa dolorosamente sentire la mancanza. Funzione principale e funzione ausiliaria - Non vorrei che le descrizioni testé fornite inducessero il lettore a pensare che nella pratica professionale questi tipi si incontrano puri come sono stati rappresentati. Queste illustrazioni non sono che galtoniane «foto di famiglia» che contengono, e quindi segnalano con tutta evidenza, un tratto comune e pertanto tipico, mentre i tratti individuali vengono con altrettanta evidenza annullati. L'esame accurato del caso individuale permette di constatare che nella coscienza oltre alla funzione più differenziata, primaria, è costantemente presente, e relativamente determinante, anche un'altra funzione, meno differenziata, secondaria. In altri termini, possono essere consci tutti i prodotti di una funzione; però noi parliamo di consapevolezza di una funzione solo quando, oltre ad essere a disposizione della volontà il suo esercizio, è determinante per l'orientamento della coscienza il suo principio. Ciò avviene, per esempio, quando il pensiero ha la capacità di riflettere ma anche di dedurre, di trarre conclusioni valide; è in grado cioè di fungere da motivo e da garanzia dell'azione pratica, senza che occorra altra dimostrazione. Sul piano pratico acquista un'egemonia assoluta sempre una sola funzione; e può goderne una sola funzione perché l'intervento altrettanto indipendente di un'altra funzione imprimerebbe alla coscienza un altro orientamento che, quanto meno parzialmente, sarebbe in contrasto col primo. Ma siccome presuppongono il processo di adattamento conscio obiettivi chiari e univoci, la funzione secondaria non può avere la stessa dignità di quella primaria, deve avere una importanza minore, cosa che si conferma anche empiricamente. Ha un'importanza secondaria in quanto, a differenza della funzione primaria, non è l'unica assolutamente attendibile e determinante, ma è una funzione ausiliaria o integrativa. Ovviamente può fungere da funzione secondaria solo una funzione la cui natura non sia in contrasto con quella della funzione primaria. Per esempio, accanto alla funzione intellettiva (pensiero) non può mai fungere da funzione secondaria quella affettiva (sentimento), perché la sua natura è sempre marcatamente in contrasto con quella del pensiero. Il pensiero, per essere diverso dal sentimento, per essere un vero pensiero fedele al proprio principio, deve escludere accuratamente il sentimento. Tuttavia esistono individui per i quali il pensiero è allo stesso livello del sentimento, per i quali le due funzioni hanno la stessa forza motivante conscia. In questo caso però abbiamo a che fare con un tipo non differenziato, nel quale sono relativamente involute sia la funzione intellettiva che quella affettiva. La pari consapevolezza e inconsapevolezza delle funzioni è quindi una caratteristica dello stato di primitività spirituale. L'esperienza insegna che la funzione secondaria è sempre una funzione la cui natura è diversa da quella della funzione primaria, diversa ma non in contrasto con essa. Quindi quando la funzione primaria è il pensiero ad esso può senz'altro associarsi, come funzione secondaria, l'intuito, o la sensorialità, ma mai il sentimento. Sia la funzione intui-zionaie (intuito) che quella sensoriale (sensorialità) non sono in contrasto col pensiero perché non sono per loro natura affini ad esso in senso inverso, come la funzione affettiva (sentimento), che quale funzione giudicante è in concorrenza col pensiero, ma sono funzioni percettive, che assicurano al pensiero un aiuto ad esso bene accetto. Però queste funzioni se raggiungessero lo stesso grado di differenziazione del pensiero modificherebbero subito il suo atteggiamento, cioè da giudicante lo farebbero diventare percettivo, quindi in contrasto con la propria tendenza. Verrebbe represso il principio di razionalità, indispensabile al pensiero, a favore della irrazionalità della mera percezione. Pertanto la funzione ausiliaria è possibile e utile solo se è al servizio della funzione primaria, solo se non pretende autonomia per il proprio principio. Ora per tutti i tipi che cadono sotto la nostra osservazione nell'esercizio della professione vale il principio che, accanto alla funzione primaria conscia, essi possiedono anche una funzione relativamente conscia, la cui natura è sotto ogni aspetto diversa da quella della funzione primaria. Da questa mescolanza nascono quadri ben noti: l'intelletto pratico, dove il pensiero è accoppiato alla sensorialità; l'intelletto speculativo, dove il pensiero è mescolato all'intuito; l'intuito artistico, che sceglie e rappresenta le sue immagini ricorrendo al giudizio affettivo: l'intuito filosofico, che trasferisce la sua visione nella sfera del comprensibile grazie a una marcata capacità intellettiva. Il raggruppamento delle funzioni inconsce ha la stessa struttura di quello delle funzioni consce. Così a un intelletto pratico conscio corrisponde un atteggiamento intuizionale-affettivo inconscio, dove la funzione affettiva viene repressa maggiormente di quella intuizionale. Questo particolare comunque ha interesse solo per lo psicologo che tratta questi casi. Per lui è importante sapere queste cose. Io ho visto molti medici adoperarsi per sviluppare la funzione affettiva direttamente dall'inconscio in soggetti squisitamente intellettivi. Si tratta di tentativi destinati a fallire perché violentano il punto di vista conscio. E quando riescono nel loro intento il paziente diventa dipendente dal medico, si instaura un transfert la cui abolizione, difficilissima da ottenere, traumatizza poi brutalmente il paziente, perché la violenza usatagli lo ha disorientato, gli ha fatto perdere il proprio punto di vista, cioè è il medico che diventa il suo nuovo punto di vista. Invece l'accesso all'inconscio e alla funzione maggiormente rimossa è facile -si apre per così dire da sé e con sufficiente percezione dal punto di vista conscio - quando la via dello sviluppo passa attraverso la funzione secondaria; nel tipo razionale, per esempio, attraverso la funzione irrazionale. Cioè questa fornisce al punto di vista conscio una visione così ampia e panoramica del possibile e dell'esistente che la coscienza riceve una protezione sufficiente, viene validamente protetta dall'effetto distruttivo dell'inconscio. Invece nel tipo irrazionale per prepararlo a fronteggiare l'urto dell'inconscio è necessario sviluppare la funzione razionale. Le funzioni inconsce sono in uno stato arcaico-animalesco. Le loro espressioni simboliche, che figurano nei sogni e nelle fantasie, rappresentano per lo più la lotta o la contrapposizione fra due animali o due mostri.
|